domenica 19 aprile 2009

Una nave chiamata "Nuraghes"

Avrei dovuta vederla dall’alto. Avrei dovuto osservarne le coste, riconoscerne i monti, scorgerne sentieri, accenni boschivi, laghi e rivoli d’acqua. Avrei dovuto sorprendermi per il suo verde scurissimo dopo le intense piogge invernali e primaverili. Ne avrei dovuto ammirare i paesini e le città: Olbia, Sassari Porto Torres, Stintino, Alghero. L’avrei dovuta vedere dall’alto, a 10 mila piedi di altezza, questo pomeriggio. Oltre il vetro di un finestrino, troppo piccolo per poterla contenere tutta. Per contenere tutta l’impazienza maturata in sette lunghi mesi di permanenza oltre Manica, a Londra.

Ed invece sono qui, in questa nave. Per un biglietto aereo andato male. Per un problema tecnico che mi ha impedito di prendere quel volo e mi ha spedito qui, in treno, in questo porto, su questa nave chiamata “Nuraghes”. Seduto su una poltrona. Circondato da persone mai viste prima, ma dall’aria familiare. I lineamenti del viso, il taglio degli occhi, le sopracciglia, la carnagione olivastra. E il modo di gesticolare, di parlare e gli accenti. Quello barbaricino e quello gallurese. Di ragazzi, nonni e genitori. Di gente che ha lasciato l’Isola per rincorrere i propri sogni, per acchiappare speranze e soddisfare necessità. Di immigrati stranieri che la vivono ormai da anni e attraversano il Tirreno per incontrare i connazionali residenti nella Capitale, fare il pieno di ricordi, di nostalgia e mercanzie da vendere in Sardegna.

E invece sono qui. Quando avrei voluto essere là. A neanche duecento chilometri di distanza, in Abruzzo. Dove la terra ha tremato, aprendosi e inghiottendo tra le sue fessure i sogni dei bambini, le speranze dei genitori, le ambizioni dei ragazzi. Avrei voluto essere là a raccogliere i sogni di quei piccoli, a rigenerare le speranze di padri, madri, nonni e zii, a risollevare le ambizioni di Antonio e Maria, Stefano e Francesca, Giovanni e Lucia. E chissà quanti altri ancora, ragazzi come noi. A dare una mano, a sporcarmi le mani di calce, di cemento. A sorridere per una vita salvata. Inaspettatamente. E poi a tarda sera, scriverne. Raccontarne le prime impressioni. Di vite rinate, di grida inghiottite. E di Speranza. Nonostante tutto.


Testi di Vincenzo Sassu

Nessun commento:

Posta un commento