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venerdì 3 giugno 2011

Manhattan Post: Oceano


Tra gli arrivi dei voli nazionali e il Terminal T3 delle partenze internazionali c’è una navetta di turisti arrossati dal sole romano, signore in paglietta, ragazze in gonna ed infradito, uomini mastodontici in capellini da baseball. Negli sguardi si intravedono Piazza di Spagna e Fontana di Trevi, il Panthèon, il Colosseo e via del Corso. Una valigia di ricordi da sistemare da sistemare nelle credenze di casa e nei comò.

Al check-in mi chiedono l’indirizzo dell’appartamento dove soggiornerò. I controlli di sicurezza sono interminabili. Arrivo al gate che sono ormai le 11. Ci comunicano che l’aereo partirà con qualche minuto di ritardo. Faccio le ultime telefonate di saluti e raccomandazioni. Mi guardo intorno: la vivacità dei bambini e la spossatezza degli adulti, l’attesa dell’inizio e la malinconia della fine diventano metafore di vita. C’è una famiglia di ebrei ortodossi: vestito nero e camicia bianca, leggono, accarezzandosi i cernecchi in simbiosi.

L’A330 della Delta Airlines è pronto. Le procedure di imbarco si svolgono rapidamente. Prendo posto al 27 J, finestrino. Di fianco, Janet, una signora di mezza età di Long Island, occhi chiari e lineamenti delicati. Con sguardo entusiasta mi racconta della sua vacanza italiana: due settimane tra la Capitale e i colli romani.
Alle 12, in un attimo, siamo oltre le nuvole, sorvoliamo la Spagna e ci tuffiamo sull’oceano. Prendo appunti, leggo, chiacchiero con Janet, le parlo della mia isola, della sua cultura, dei suoi costumi e tradizioni, della natura dei sardi.

Nella conversazione interviene Giuseppe, un signore sulla settantina, baffi brizzolati e capellino da baseball. Lo vedo che sorride di un sorriso nostalgico. Mi dice di essere originario di Pattada, un paesino di 5 mila abitanti dell’entroterra sardo. “Ho lasciato la Sardegna quando avevo appena dodici anni e ora vivo oltreoceano da oltre cinquant’anni. Ma il ricordo della nostra terra è sempre vivo nei pensieri. E a volte sogno. Sogno le passeggiate estive con mio nonno per andare in campagna, i pomeriggi a coltivare il campo, il cammino di ritorno a casa al tramonto. Quando il sole tingeva di rosso l’atmosfera e bruciava gli ultimi fili d’erba ancora rimasti”.

Parole che mi riportano all’infanzia, al profumo dell’erba appena tagliata, a quello della sabbia dopo un temporale e del mare in primavera. Al corbezzolo e all’oleandro. Alle vacanze trascorse a Cala Gonone e ai torridi pomeriggi estivi. Alle serate trascorse a giocare in piazza.

Sensazioni che mi accompagnano guardando oltre il finestrino, dove l’azzurro del mare si sfuma nel celeste del cielo. E le nuvole assumono forme strane, disegnano sentieri: montagne di zucchero filato. L’oceano brilla. Un luccichio frenetico. Un concerto di colori.

Di sole e d’azzurro.


Testo e fotografia di Vincenzo Sassu

giovedì 2 giugno 2011

Manhattan Post: Il Mediterraneo, un lago di sogni


Dieci, cinquanta, cento, duecento. Quando l’aereo spicca il volo dall’aeroporto di Alghero, raggiungendo i 300 km/h circa, sono le sette del mattino. Lo fa con grazia, tanto che nemmeno il frastuono dei motori a pieni giri, riesce a destarmi dal torpore in cui ero piombato durante le istruzioni di salvataggio.

Quando apro gli occhi osservo la Sardegna sonnecchiare dall’alto, coperta da una leggera foschia che ne ammanta il paesaggio, rendendolo quasi incantato. Da lassù sembra il frutto di un puzzle complicatissimo di appezzamenti coltivati di terra, di poderi selvaggi e giardini ben curati. Te ne accorgi dai colori: giallo, verde, marrone a seconda della cura con cui sono stati coltivati o dell’abbandono in cui li hanno lasciati.

Oltre le nuvole, il paesaggio assume i colori scintillanti, giovani del mattino. L’azzurro vivo del cielo e il rosso acceso del sole si riflettono sul mare in una scia di luce così intensa, che sembra dividerlo. Un sentiero che si allarga per diventare una pozza di luce, un lago di sogni.

Arrivo a Roma che sono le otto.


Testo e fotografia di Vincenzo Sassu

sabato 7 maggio 2011

Writing about Europe: bringing an elephant in a crystal shop


Is Europe newsworthy?

On the 4th day of the Perugia International Journalism Festival 2011 (15th of April) Italian journalists sat together to discuss European journalism. Victoria Graul, German volunteer and expert in European issues, sums up the gist of the workshop.

“Do you think reporting on the European Union is boring?...The Italian newspapers don’t have many EU information about the European Commission, but young people want many news…Reporting on the European Union institutions is perfect just because there are very few people who know how they exactly run… You should talk about it in a simple way because the European Union’s organization is very complicated”.

Breaking down issues regarding the European Union to an understandable coverage seems to be a tough challenge for journalists. At least the participants in the workshop “Writing about Europe” agreed on that. Gabriele Crescente, one of the founders of the news website presseurop.eu cut right to the chase of the matter when he said that including the European Union in journalism was like bringing an elephant in a crystal shop.

Crescente explains the meaning of his analogy: “Most of the time the reader feels that European institutions are very far from his interests. You have to make him discover that you are talking about his real life but without the institutional touch. And what helps us is that it refers to main stream media work, so it is already tailored on a wider audience than institutional media do”.

Since the Lisbon Treaty the European Union legislature has been once more broadening its influence in each member state. However European citizens seem to show little interest in the matter of the European Union, as the few voter-turnout for the European Parliament in 2009 proves.

Crescente from presseurop.eu explains the tool they use to attract the reader’s attention for European issues: “We can either publish the whole article and translate it into ten languages. In this case the only work you have to do is to pick an article that is telling over a national issue, but that can be interesting to other national readers. Or we can have colored briefs that are mainly what is on the front page of European main newspapers. In this case you have to plunge into the national reality that can be sometimes very far from the average reader”.

The participants of the workshop further discussed the lack of information that European institutions provide to journalists. Succeeding in European journalism means to be prepared. There is one way to be considered: Studying the European Union’s complex apparatus to gain expertise knowledge in European matters.

You can download the Podcast here.


Article and podcast by Victoria Graul (24 years old, Chemnitz, Germany)

Photo: http://www.tomshw.it

venerdì 29 aprile 2011

Ettore Mo in viaggio nell'India di Dominique Lapierre


Ettore Mo, uno dei più grandi inviati della storia del giornalismo italiano, celebre corrispondente di guerra del Corriere della Sera, si è rimesso in viaggio. In questo periodo si trova in India e nel suo ultimo reportage “La battaglia delle navi ospedale per salvare i dimenticati del Gange” ci racconta la storia dei volontari delle isole Sundarbans che lottano contro Aids e tubercolosi.

Nel testo, viene citato Dominique Lapierre, giornalista dalla vocazione missionaria che l’India la conosce meglio di chiunque altro per averci vissuto e dedicato libri di rara intensità come La città della gioia (Mondadori, 1996) e India Mon Amour (Il Saggiatore, 2010). Proprio da quest’ultimo libro, diventato presto un best-seller in tutto il mondo, Ettore Mo prende in prestito una storiella che spiega l’origine dell’impulso all’infinità generosità del popolo indiano.

Nell'episodio Lapierre parla “di una ragazzina tutta ossa e probabilmente affamata cui ha regalato un biscottino e che ora segue mentre s'allontana: «Dopo alcuni minuti - scrive - ho visto un cane scheletrico che le andava incontro. La ragazzina spezzò il mio biscotto in due e ne diede la metà al cane. Rimasi senza parole. L'India m'aveva dato il più bel insegnamento su come condividere le cose”.

Sul sito internet del Corriere è possibile vedere anche il videoreportage realizzato da Ettore e dal fotografo, Luigi Baldelli, che da anni lo accompagna nei suoi viaggi.

Come scrive in un suo reportage, Ettore nasce "da una famiglia povera (il papà operaio, la mamma casalinga, ambedue con la pagella della terza elementare come supremo traguardo scolastico)". Si iscrive alla facoltà di Lingue e Letterature straniere dell'università Ca' Foscari di Venezia, ma decide presto di abbandonare gli studi e mettersi in viaggio. Una lunga peregrinazione che lo porta a lavorare come barista nelle Isole del Canale, come cameriere a Parigi (pelando anche patate a Place de la Sorbonne), infermiere in un ospedale di Londra per malati incurabili, insegnante di francese a Madrid senza averne i titoli e steward in prima classe, facendo per ben due volte il giro del mondo su una nave mercantile della marina britannica. Alla soglia dei trent’anni approda alla sede londinese del Corriere della Sera e, dopo una gavetta durata dieci anni, inizia a lavorare come inviato, coprendo guerre, rivoluzioni e raccontando storie di sofferenza e umanità, di gioia e dolore. Ovunque, dall'Asia all'America Latina. “Una vita randagia” la sua, come racconta nel suo libro Ma nemmeno malinconia (Rizzoli, 2009). A lui è dedicato il numero di aprile dello storico settimanale d'attualità L'Europeo, ora diventato mensile, intitolato “Professione Cronista. L'avventura quotidiana".



Fotografie: Ettore Mo (www.ilreporter.com); Dominique Lapierre (http://libri.forumcommunity.net)

martedì 26 aprile 2011

Quando c'era Tiziano Terzani "twittavano" solo gli uccellini


L’evoluzione tecnologica ha portato il giornalismo a rimettersi in discussione, a modificarsi a fondo e inventarsi nuove identità anche attraverso l’uso dei social media, come Facebook e Twitter, diventati tra gli strumenti più utilizzati nel racconto giornalistico.

Ritornando indietro nel tempo e rileggendo Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia di Tiziano Terzani (Longanesi, 2008) ho trovato un breve messaggio che il celebre giornalista e scrittore spedì al suo capo redattore, Paolo Murialdi.

Eravamo agli inizi degli anni Settanta e, all’epoca, si inviavano gli articoli tramite telex (quando possibile), la “mail” non aveva alcuna “e” davanti e la si poteva stringere tra le mani, “facebook” era solo un libro fotografico di primi piani e “tweettavano” (cinguettavano) solo gli uccelli.

YYROM
: PRIMO GIORNO:
EX TERZANI IN PHNOM PENH
PER MURIALDI

Carissimo,
arrivato sabato. Impossibile spedire prima causa inutilizzabilità del telex. Ogni articolo deve essere affidato a messaggeri che vanno a Bangkok o Singapore, da lì alla Reuters, molta roba va persa. Ti sarei grato di un telegramma di conferma ogni volta che ricevi. Anche grato se tu facessi pubblicare i miei pezzi come sono aggiungendo le notizie della giornata a parte. Attenti alle agenzie che drammatizzano o inventano. Saluti anche da Bernardo. Tiziano


Il Giorno, 14 agosto 1973


Tiziano Terzani lavorò per oltre trent’anni in Oriente per il Der Spiegel, il Giorno, l’Espresso, la Repubblica, Il Messaggero e il Corriere della Sera. Chi fosse interessato alla sua vita può visitare l'esposizione fotografica a lui dedicata, "Tiziano Terzani. Clic! Trent'anni in Asia", in corso a Roma fino al 29 maggio 2011.

fotografia: www.enel.it

venerdì 22 aprile 2011

Le voci del Festival

Il Festival di Giornalismo di Perugia è terminato qualche giorno fa. Un momento di confronto professionale tra i grandi che l'informazione la fanno da anni e i giovani che vorrebbero farla, seguendo magari le loro orme.

Tra questi c'è Daniele Zibetti, studente della Cattolica di Milano, e appassionato di giornalismo e fotogiornalismo.

A Perugia, Daniele ha incontrato il suo "modello": Giorgio Fornoni, un viaggiatore che ha vissuto per l'incontro con l'Altro. Un reporter "vecchio stile", autore di Ai confini del mondo, un libro e Dvd che racconta "il viaggio, le inchieste e la vita di un reporter non comune". Giorgio è un bergamasco nato per dar voce a chi non ce l'ha. Proprio come sogna di fare Daniele che, nell'ultimo post del suo blog "Mosaico", ha pubblicato i "tasselli" del Festival: alcuni delle frasi più significative pronunciate durante gli incontri di Perugia.



“Una profonda voglia di scoprire ciò che succede nelle stanze del potere e durante le guerre.”

Riccardo Noury, direttore di Amnesty International Italia

“La potenza del fumetto è la sua capacità di sintesi. E’ immediato perché contiene in sé due linguaggi in uno.”

Elisabetta Benfatto

“Andare dove è difficile raccontare e costringere i nostri Paesi ad entrare in queste dimensioni è un dovere morale.”

Emilio Casalini

“Mentre in Egitto e Tunisia è la dittatura che va eliminata, nel mio Paese, l’Iran, è la religione che va allontanata dalla vita sociale.”

Reza Ganji, fotogiornalista iraniano

“L’immigrazione è come il vento. Possiamo chiudere le finestre ma quando diventerà più forte le sfonderà ed entrerà comunque.”

Sandro Provvisionato

“Io sono un tecnico, racconto i fatti… ma vaffanculo! C’è della gente che muore!”

Jacopo Fo

“You’re from Al-Jazeera? Ok. You’re under arrest. And why? We don’t know. Oh… yeah… maybe we know why!”

Laith Mushtaq

“Mi ricordo di quelli che avevano il fuoco dentro, perchè il fuoco dentro è qualcosa che nessuno ti dà!”

Giuseppe Smorto

“L’informazione mangia lo spettacolo, lo spettacolo mangia la politica e il bunga bunga s’è mangiato tutto quanto!”

Luca Telese

“Censurare siti internet è permesso in pochissimi stati nel mondo… come Cina, Iran e Italia…”

Marco Calamari

“Gli imbecilli sono distribuiti uniformemente in tutte le categorie umane.”

Marco Calamari

“Nemmeno io farei domande a me stesso, se mi vedessi!”

Vauro

“Calderoli: «La Padania e il Mezzogiorno prima di Garibaldi stavano benissimo!» È una cazzata pazzesca!”

Sergio Rizzo

“Ora infangateci tutti!”

Roberto Saviano

“Perché, tu non hai mai leccato il culo a tua moglie?”

Giuseppe Cruciani a Luca Telese

“La ‘Ndrangheta si arrabbia con noi perché facciamo venir meno l’omertà.”

Pierpaolo Bruni

“Gli italiani dovrebbero tornare ad avere senso critico, a verificare i fatti: nonostante varie carte, regolamenti e codici deontologici, manca tutto ciò.”

Carlo Gubitosa

“L’anomalia del berlusconismo è talmente anomala da non essere risolvibile.”

Ezio Mauro

”È importante che il giornalista vada nei posti dove è difficile andare, è un’importanza quasi etica.”

Emilio Casalini

“Chiedere all’oste se il vino è buono, credendo che meglio di lui non lo sappia nessun altro.”

Giorgio Meletti

“Dopo esser riusciti a rompere le barriere bisogna soffermarsi sulla realtà.”

Gianni Riotta

“Tutto ha un prezzo, ma il prezzo più grande sono i danni causati e subiti. I giornalisti devono essere liberi e il giornalismo deve puntare sulla qualità delle informazioni.”

Mort Rosenblum

“Non solo il giornalismo non è destinato a morire nel XXI secolo, ma sarà sempre più un’infrastruttura portante delle nostre imperfette democrazie.”

Carlo De Benedetti

“Per far cadere il Governo, non siete d’accordo sul fatto che basterebbe infiltrare un po’ di omosessuali a Palazzo Chigi?”

Nichi Vendola

“Questo è il lavoro più bello del mondo. Incontri situazioni diverse, realtà umanitarie. Ma è nella sofferenza che incontri la vera natura dell’uomo, dove non si può barare. Bisogna raccontare queste realtà affinché il mondo le conosca.”

Giorgio Fornoni

giovedì 3 marzo 2011

Giornalista sul barcone per Lampedusa

L'inviato della tv tedesca Rtl, Jenke von Wilmsdorf, è partito da Zarzis, profondo sud tunisino. Ha percorso chilometri per arrivare sulla costa e imbarcarsi in un peschereccio. Ieri è sbarcato a Lampedusa dopo 48 ore di navigazione insieme ad altri 345 immigrati. Questo è il giornalismo che, con umiltà e serietà, svolge la sua funzione primaria e più importante: andare, vedere, raccontare.

In questo video troverete l'intervista al reporter realizzata dopo lo sbarco da Sky TG24.



fotografia: blog.panorama.it

domenica 27 febbraio 2011

El Futuro del Periodismo



Sul sito del quotidiano "El Pais" potete trovare il video di un interessante dibattito in spagnolo tra i direttore del "New York Times", "The Guardian", "Der Spiegel, "Le Monde" sulle conseguenze prodotte dai cablogrammi diffusi da Wikileaks sui rapporti diplomatici con gli Stati Uniti e sul valore e l'influenza del web e delle nuove tecnoligie nelle rivolte arabe.

Questo è il link: Debate sobre el futuro del periodismo

Fonte: wwww.elpais.com

venerdì 11 febbraio 2011

Sistematici attacchi ai giornalisti


“Furti, violenze, arresti arbitrari, linciaggi. La lista delle aggressioni ai giornalisti attuata dai militanti di Mubarak non fa che allungarsi di ora in ora. Aggressioni che hanno un carattere sistematico e concertato”. Il segretario generale di Reporters sans Frontières, Jean-François Julliard, condanna gli attacchi che i reporter di tutto il mondo stanno subendo in Egitto, mentre cercano da giorni di raccontare l’evoluzione imprevedibile degli eventi. Le cifre che arrivano all’organizzazione internazionale francese, impegnata per la tutela della libertà di stampa nel mondo, sono drammatiche: 26 giornalisti aggrediti, 4 casi di materiale confiscato (telecamere, macchine fotografiche), una redazione attaccata, 19 giornalisti arrestati. Venerdì, il primo morto. Si chiamava Ahamad Mohamed Mahmoud, lavorava per il quotidiano Al-Ta'awun ed era stato colpito alla testa da un cecchino nella zona di Qasr al-Aini, nei pressi dell’epicentro delle rivolte: piazza Tahrir.



Nei giorni scorsi, anche il Dipartimento di Stato americano ha denunciato “una campagna per intimidire i giornalisti e rendere impossibile il lavoro in Egitto”, invitando le autorità a liberare tutti gli arrestati. Un regime quello di Hosni Mubarak che, attraverso i suoi sostenitori, sta prendendo di mira i media, accusandoli di aver destabilizzato l’Egitto e fomentato le proteste contro il Presidente. Sono arrivati da tutto il mondo i reporter che stanno coprendo le vicende egiziane e condividono storie di aggressioni, arresti e violenti interrogatori. Sahar Talat corrispondente in Egitto della redazione spagnola di Radio France Internationale racconta ad esempio di essere stato accerchiato, colpito dalla folla e accusato di essere una spia di Al Jazeera. Rubert Wingfield-Hayes della BBC dice invece di essere stato attaccato da alcuni militanti mentre guidava in una via del Cairo, portato al cospetto della polizia, bendato ed interrogato, prima di essere rilasciato dopo qualche ora. Secondo l’agenzia di stampa turca Anatolia, un giornalista di Fox Tv Turchia, il suo cameraman e l’autista sono stati rapiti e minacciati con dei coltelli mentre filmavano le manifestazioni ed in seguito liberati dalla polizia egiziana. Anche uno dei giornalisti americani più conosciuti, Andersoon Cooper della CNN, racconta di essere stato inseguito dalla folla, che poi ha distrutto i filmati che aveva girato. Nella mattinata di venerdì vengono arrestati anche i nostri colleghi Michele Giorgio del Manifesto e Giovanni Porzio di Panorama: bloccati da una banda di giovani armati di coltelli, vengono poi consegnati ai militari e alla polizia, e rilasciati.



Ad accusare le autorità egiziane di mettere “a tacere le voci del popolo egiziano” è anche Al Jazeera, a cui già dal 30 gennaio scorso era stato vietato di coprire le rivolte contro il Presidente Mubarak. L’emittente satellitare del Qatar, oltre a venire censurata dal governo, che ne ha chiuso le trasmissioni, ha subito anche gli assalti di “bande di delinquenti” che hanno dato fuoco ai suoi uffici nella Capitale egiziana, prima dell’arresto del direttore e di un suo giornalista. “Sembra che nel Cairo non ci sia più un luogo dove i giornalisti stiano al sicuro. Il potere egiziano deve considerarsi responsabile di una politica aggressiva di tale portata” commenta Julliard, che invita “la comunità internazionale ad esprimere una posizione forte ed unanime di condanna”, tirando le conclusioni dagli incidenti accaduti fino ad ora per l’applicazione di eventuali sanzioni.



"Io giornalista sotto assedio". La testimonianza del reporter e fotografo Alfredo Macchi inviato in Egitto

Articolo: Vincenzo Sassu
Fotografie: Associated Press Agency (published by The Kansas City Star)

sabato 23 gennaio 2010

"Reporters sans Frontières": i paladini della libertà di stampa nel mondo


PARIGI.“Senza una stampa libera nessuna lotta democratica può essere conosciuta, capita, sostenuta”. Il messaggio è universale e viaggia dall’Africa al Medio Oriente, dall’Europa all’America, sostenuto da Reporters sans Frontières, l’organizzazione internazionale nata a Parigi nel 1985 che difende la libertà di stampa nel mondo. Perché negli ultimi cinque anni più di 340 professionisti dei media hanno perso la vita mentre lavoravano per informarci. E, al giorno d’oggi, più di 130 giornalisti sono imprigionati semplicemente per aver esercitato il loro mestiere, per aver avuto il coraggio di raccontare, nonostante i rischi, le minacce, le intimidazioni. A Cuba, in Eritrea o in Cina, un giornalista può trascorrere mesi e mesi in galera per un articolo, per una foto. Per questo, da ventiquattro anni ormai, RSF denuncia i “predatori della libertà di stampa”, quegli uomini che imbavagliano la stampa oppure ordinano ai loro subordinati di farlo. In genere sono responsabili politici di alto livello, capi di governo, ministri, monarchi, ma anche gruppi armati o cartelli della droga, mafie locali. Gente che ha il potere di censurare, rapire, torturare e nel peggiore dei casi uccidere i giornalisti, senza rendere conto dei gravi attentati alla libertà d’espressione di cui sono colpevoli. E questa impunità è uno dei pericoli più grandi che i reporter sono costretti a fronteggiare.



Nel 2008 sono 39 a portare questo titolo. Fidel Castro è sparito perché ha lasciato il suo posto al fratello Raul, lo stesso vale per l’ex presidente del Pakistan Pervez Musharraf. Nella nuova lista sono però entrate Hamas, le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania e quelle israeliane che attaccano costantemente i reporter che documentano le loro incursioni nei territori palestinesi. Ci sono poi il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, quello siriano Bashar al-Asad, i gruppi islamisti armati dell’Afghanistan, dell’Iraq e del Pakistan, i cartelli della droga messicani, il presidente della repubblica popolare cinese Hu Jintao, quello della Federazione Russa, Dimitri Medvedev e del primo ministro Putin, l’Ayatollah Khomeini, l’organizzazione terroristica basca dell’ETA, le mafie e le organizzazioni criminali italiane. Anche nello Sri Lanka, in Corea del Nord, in Somalia, Eritrea e in vari stati dell’Africa i nemici della libertà stampa sono numerosi.

Assassini, reclusioni, minacce di morte, rapimenti, punizioni economiche: i metodi adottati sono tanti. Il barometro 2009 della libertà di stampa parla chiaro: 35 giornalisti uccisi, 176 reporter e 10 collaboratori arrestati, 93 cyberdissidenti imprigionati. Professionisti che non hanno mai smesso di osservare l’Altro, sguardi che spesso si sono caricati di rabbia e tristezza per un’inspiegabile crudeltà. L’equipe di Reporters sans Frontières li sostiene, offrendo loro assistenza attraverso il dispositivo SOS Presse: componendo un numero di telefono, in qualunque momento, un responsabile dell’associazione, fornisce loro dei contatti, allertando le autorità locali e consolari o agendo secondo quanto la situazione richiede. L’attenzione dell’organizzazione è focalizzata in particolare sui giornalisti freelance che rischiano la vita per raccontare i conflitti che insanguinano il pianeta. Qualora vengano feriti, uccisi o presi in ostaggi, gli inviati di RSF sparsi nel mondo si mettono all’opera, conducendo delle inchieste personali per far luce sulle dinamica degli eventi ed individuare i responsabili. Perché anche in tempo di guerra, l’impunità deve essere combattuta con vigore. Proprio come ha cercato di fare Déo Namumjumbo, un giornalista freelance congolese, corrispondente di Reporters sans Frontières, dell’agenzia di stampa InfoSud/Suisse e del magazine femminile Amina.



Con i suoi articoli, Déo denunciava le ingiustizie, i soprusi subiti dalla popolazione locali e dai bambini costretti ad arruolarsi per combattere le guerre di regime. Temeva per la sorte dei suoi familiari, aveva paura. Finché un giorno non uccisero suo fratello minore, Didace. Sconvolto dal dolore, con coraggio nel novembre 2008, Déo inizia un’inchiesta per far luce sul caso, individuare i responsabili e spingere le autorità a processarli. Gli elementi raccolti e le continue minacce telefoniche, portarono all’arresto di una decina di persone. «Ma da quel momento in poi, la mia vita cambiò», racconta. «Non avevo più una vita normale. Venivo minacciato costantemente ed ero costretto a viaggiare a Uivira, Walungu e Goma, in Ruanda, dove trascorrevo molti giorni in hotel, sotto falsa identità. Questo per non essere visto a Bukavu (ndr città della Repubblica democratica del Congo) dove vive la mia famiglia. Spesso dovevo rimanere in casa finché i miei figli non si coricavano, poi andavo a dormire da amici o cugini e rientravo a casa per le cinque del mattino, prima che i bambini si svegliassero, con la paura che si accorgessero di tutto e ne rimanessero traumatizzati». Dopo aver ricevuto nel 2009 la Plume D’Or, il premio mondiale assegnato ogni anno per la libertà di stampa dalla WAN, la World Association of Newspapers”, Déo ora vive a Parigi, alla Maison des Journalistes (l’associazione francese che accoglie i giornalisti di tutto il mondo vittime di minacce, torture e persecuzioni nei loro Paesi); qualche mese fa ha ottenuto lo status di rifugiato politico in Francia e attualmente gli otto figli e la moglie vivono sotto la protezione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.



Nel mese di ottobre, Reporters sans Frontières ha pubblicato la nuova classifica della libertà di stampa nel mondo. Il rapporto nasce grazie alle risposte fornite da centinaia di giornalisti ed esperti di quasi tutto il mondo al questionario preparato da RSF. E tiene conto delle violazioni alla libertà di stampa tra il primo settembre 2008 e il 31 agosto 2009. Sono più di 50 i criteri che hanno contribuito alla redazione del rapporto. Ci sono le aggressioni, gli arresti e le intimidazioni subite dai giornalisti, le minacce indirette, le pressioni e l’accesso all’informazione, la censura e l’auto-censura, lo stato dei media pubblici, le pressioni amministrative, giudiziarie ed economiche, la situazione di Internet e dei nuovi media, il numero di giornalisti assassinati, arrestati, aggrediti, minacciati e la responsabilità dello Stato in questi atti. «La libertà di stampa deve essere difesa in tutto il mondo, con la stessa forza e la stessa esigenza», ha commentato il segretario generale di RSF, Jean-François Julliard.



Il rapporto dice l’Europa è esemplare in termini di libertà di stampa. I primi posti sono infatti occupati da nazioni europee. La classifica è guidata dalla Danimarca, seguono poi Finlandia, Irlanda, Norvegia, Svezia, Estonia, Paesi Bassi e così via. L’Italia perde cinque posizioni rispetto al 2008 e si colloca al quarantanovesimo posto, dietro Paesi come la Giamaica, il Sudafrica, il Ghana, il Costa Rica, la Lituania e la Bosnia-Erzegovina. «La cosa più inquietante – commenta Julliard – è che grandi democrazie europee come la Francia, l’Italia o la Slovacchia, continuino anno dopo anno, a perdere posti nella classifica. L’Europa deve essere esemplare nel garantire le libertà pubbliche. Altrimenti com’è possibile denunciare le violazioni nel mondo, attuandole nel proprio territorio?». Il cosiddetto “effetto Obama” ha permesso agli Stati Uniti di scalare la classifica, sono al ventesimo posto e guadagnano 16 posizioni rispetto all’anno passato. Nei gradini più bassi, a preoccupare è invece la situazione dell’Iran, il Paese si avvicina infatti al “trio infernale” per la libertà di stampa, costituito ormai da anni dall’Eritrea, dalla Corea del Nord e dal Turkmenistan. Luoghi dove i giornalisti vengono minacciati. Dove qualunque voce non allineata ai regimi che governano, viene bandita, soffocata. Sono voci che spaventano, perché le parole non appartengono solo a chi le pronuncia. Ma a coloro che le ascoltano. E le ascolteranno. Le parole corrono, non si possono fermare. Perché, come scrive Roberto Saviano, pensando a Orhan Pamuk, Salman Rushdie, Anna Politkovskaja e tanti altri giornalisti e scrittori nel mondo, la potenza della parola, la sua forza letteraria, “sta proprio nella sua fruibilità, che la rende in grado di andare oltre ogni limite, di andare nel tempo quotidiano di chiunque, divenendo strumento ingovernabile e capace di forzare ogni maglia possibile”.



Testi e fotografie di Vincenzo Sassu

venerdì 27 novembre 2009

Il Coraggio di raccontare


Questo reportage racconta l’attività della “Maison des Journalistes”, l’associazione francese che dal 2000 accoglie i giornalisti vittime di torture e persecuzioni fuggiti dai loro paesi d’origine. Nella sua sede a Parigi ho incontrato reporter sviliti dal passato, nostalgici di famiglie e affetti lasciati a casa, di fughe tristi, provanti. Ho ascoltato le parole di chi ha sacrificato la vita per gli altri, denunciando i soprusi e le angherie subite dai loro popoli, soffocati dal gioco del potere. Uomini e donne che hanno raccontato le brutture dei loro governanti, le ingiustizie di esistenze vissute a metà, trascorse nel timore della violenza, in Paesi dove la libertà di stampa è solo un miraggio. Giornalisti che hanno lavorato con passione. E con una missione nel cuore: dare voce a chi non ce l’ha.

PARIGI. Bagnata dalla luce autunnale, la scultura di Anna Politikoskaja con il viso raccolto tra le mani e lo sguardo perso nel vuoto, assorto, è il gioiello di casa, della “Maison des Journalistes”, l’associazione che dal 2000 accoglie i giornalisti che richiedono asilo politico in Francia. É l’opera che attrae gli sguardi di prima mattina, rasserena gli animi di giornate stanche e ridefinisce i sogni ormai sfocati di cronisti lontani dalle famiglie, dai propri affetti, dalle gioie della quotidianità. Come un pennello, li disegna ancora una volta, dandogli i colori vivi della speranza. Di una vita nuova a Parigi, all’ombra della Tour Eiffel o chissà dove. Ma lontani dal proprio Paese che hanno lasciato d’improvviso per salvare la vita. Viaggi lunghi, notti insonni e giornate strazianti, con il cuore in gola per la paura di essere inseguiti, picchiati o uccisi. Hanno lasciato l’Afghanistan, l’Algeria, il Cameroun, Haiti, il Congo, il Togo, la Turchia e tante altre nazioni. Dove non potevano più parlare, scrivere o mangiare. Vivere. Persone coraggiose che hanno scelto di essere giornalisti in una terra che non li accettava, sfidando gli uomini di potere che volevano reprimerli perché con coraggio informavano sulle brutture dei governanti o di chi li sosteneva.



Peregrinazioni tormentate le loro, prima di arrivare a Parigi, al numero 35 di rue Cauchy ed unirsi alla grande famiglia di reporter costretti a fuggire per aver sostenuto la nobile causa della libertà di stampa. Ad accoglierli, l’anima di due giornalisti, il loro coraggio, la speranza che infondono e lo sguardo che rasserenano: Danièle Ohayon e Philippe Spineau, i fondatori della “Maison des Journalistes”, che dal 2002 ha dato ospitalità a 172 reporter di varie nazionalità, 30 ogni anno. «Sono persone che hanno un grande bisogno di parlare, di confidarsi, di raccontare le esperienze tragiche vissute. Hanno voglia di condividere. Di iniziare una nuova vita. Qui alla “Maison” ricevono sostegno, consigli e un luogo per riflettere», racconta Danièle Ohayon nel suo studio, impreziosito di foto e ricordi di vignettisti, reporter di carta stampata, radio e televisione che negli anni sono passati da quella stanza. Per avere un letto, un piatto caldo, un ideale in cui credere ancora, una speranza. Uomini e donne con molti anni di esperienza professionale alle spalle. Che spesso avevano assunto incarichi importanti all’interno delle loro redazioni. E per questo hanno lasciato sulla scrivania inchieste, reportage, interviste. Articoli che avrebbero potuto contribuire a cambiare le sorti della nazione. A rendere consapevoli afgani, congolesi, cubani, turchi, cinesi e tanti altri popoli del giogo che li soffocava, delle minacce che ne frantumavano il respiro.



Alla “Maison des Journalistes” i giornalisti possono trattenersi al massimo sei mesi, il tempo medio necessario per ottenere lo status di rifugiato politico. Durante questo periodo di attesa, la legge non li autorizza a lavorare, perciò nella nuova residenza iniziano a studiare il francese, scrivono per il trimestrale dell’associazione e cercano di rifarsi una vita. «Purtroppo solo una minima percentuale continua a fare il reporter qui in Francia. Ed è un vero peccato, perché per i media francesi sarebbe davvero interessante lavorare con giornalisti rifugiati, magari proventi dalle ex colonie. In genere, i più giovani riprendono a studiare, la maggior parte si improvvisa nei mestieri più disparati: autista, ristoratore, informatico, guida museale, operaio. Mi vengono in mente le parole di un giornalista, rifugiato politico, che ora lavora in una delle radio più importanti francesi: “Cercavo lavoro, volevo continuare a fare il giornalista. Ma quando andai all’ufficio di collocamento mi risposero che per me c’era solo un posto di addetto alla sicurezza. E io risposi: “Ma come, io dovrei proteggere i francesi? In realtà, pensavo che foste voi a dover proteggere me!”. Un’altra bella storia è quella di un cronista del Senegal che, dopo aver ottenuto l’asilo politico, frequentò una delle migliori scuole di giornalismo in Francia. Nessuno però volle assumerlo come giornalista. In mancanza di un lavoro, si rimboccò le maniche e, per sopravvivere, iniziò a lavorare in una lavanderia. Di cui poi divenne il responsabile. Nel frattempo creò un giornale gratuito per la comunità africana in Francia. E iniziò a lavorare nella pubblicità. Questi sono solo degli esempi, ma col tempo si moltiplicheranno. Sono persone in gamba, che ripartano da zero dopo aver rischiato la vita per gli altri. Siamo davvero molto orgogliosi di accoglierli e dare loro la possibilità di una nuova vita». Usciti dal suo studio, visitiamo l’edificio. Ci lasciamo risucchiare dal silenzio che si sposa con i bagliori tenui del pomeriggio autunnale per regalare agli oggetti, ai muri, alle stanze un’aura di pace, di tranquillità. La “Maison des Journalistes”, proprio come dice il suo nome, è una vera e propria casa disposta su tre piani, un mondo in cui tutto sembra scorrere lento. La cucina, la sala lavanderia, la sala TV e la sala lettura sono universi lontani anni luce dalle tribolazioni patite dai giornalisti prima della fuga, dalle torture subite. Da quel pensiero ricorrente: “Meglio morire, per soffrire così”. Appese sulla porta di ogni stanza, le targhette di Canard Enchainé, RFI, Canal Plus e dei media francesi che, insieme al Fondo Europeo per i Rifugiati sostengono la “Maison”, coprendo le spese di funzionamento.



Mentre scivoliamo lentamente lungo i corridoi, arriviamo in un piccola sala dove due reporter lavorano alla versione elettronica dell’“Oeil de l’exilé”, l’occhio dell’esiliato, un magazine trimestrale che permette ai residenti di praticare la professione e comprendere i meccanismi della stampa francese. A darci il benvenuto, il sorriso di Jean Jacques Jarel, un giornalista del Gabon, arrivato alla “Maison” nel mese di agosto. É il suo compleanno. Ha gli occhi acquosi della commozione, come due grandi paludi. «Sono laureato in filosofia, ma non ho mai insegnato. Ero giovanissimo quando diventai giornalista. Avevo appena 19 anni e durante la mia ventennale carriera ho lavorato nella stampa, nella radio e nella televisione del mio Paese».
Osservandolo mentre parla, il suo viso cambia, sembra una tela, dove le parole dipingono l’espressione entusiasta degli inizi, del primo articolo, del primo servizio radiofonico. Poi, dopo l’impeto iniziale, quello dei ricordi giovanili, dei colori vivi, il suo sorriso si spegne e la tela si tinge di grigio, delle sfumature cupe della fuga, di quella telefonata, di quella voce: “Scappa, ti stanno cercando”. «Era la mattina di qualche mese fa e avevo appena trasmesso la notizia della malattia che aveva colpito il nostro presidente, costringendolo ad un ricovero ospedaliero a Barcellona. A voi, potrebbe sembrar strano, il vostro è un Paese democratico. Ma in Gabon e in tante altre nazioni diffondere notizie come queste porta alla prigione, alla tortura. Per il popolo, il presidente deve rappresentare la perfezione, il “Dio in Terra”. Non è lecito conoscere le sue condizioni di salute, i suoi problemi, le sue difficoltà. E se qualcuno prova ad informarne, allora scatta la persecuzione. Ero consapevole che diffondendo una notizia del genere avrei rischiato molto. Ma l’ho fatto per informare i miei connazionali. Perché quello era il mio dovere. Da noi, i diritti umani non esistono, la libertà di stampa è solo un miraggio. E se vuoi fare il giornalista e non rischiare la vita, devi accarezzare la pelle del potere».



In Francia, Jacques vorrebbe continuare a lavorare come reporter: «Sono consapevole che qui sarà molto difficile, il mercato dei media è chiuso. Perciò, almeno inizialmente, cercherò di trovare un lavoro che mi permetta di nutrire la famiglia e vivere. Non amo l’assistenzialismo. Il mio piano è chiaro: riprendere gli studi e conseguire una laurea nella mia nuova Patria, perché qui un titolo “made in Africa” ha poco valore». Il pensiero delle figlie, della moglie, della sua terra lo accompagna. E gli dà coraggio. La voglia di integrarsi nella società francese lo stimola. Lo entusiasma. Proprio come Ali Muhaqiq Nasab, un reporter afgano, anch’egli residente nella “Maison”. Spingendo la porta della sua stanza, i suoi occhi appaiono rilassati, la sua espressione distesa. É un uomo di mezz’età, dal viso bonario. Sembra smanioso di mostrarci il suo computer, dove gira un CD che traduce alcune frasi idiomatiche dalla lingua farsi, la sua, a quella francese, del Paese che lo accoglie. “Ero caporedattore del mensile di Kabul Haqoq-e-Zan (Women’s Rights) e denunciavo i soprusi e le angherie subite dalle donne. Per questo nel marzo 2008 sono stato arrestato vicino a Teheran. Poi qualcuno entrò in casa e sequestrò i miei documenti, il telefono e il mio computer». Già nel 2005, Ali fu fermato in Afghanistan e detenuto per due anni con l’accusa di aver pubblicato degli articoli contro la religione islamica. Scriveva di donne, si batteva per i loro diritti, quest’uomo di mezz’età, dagli occhi profondi. E come Jacques lo faceva con passione. Con spirito critico. Denunciando la difficile condizione dei loro popoli. Quella che i governanti volevano celare per conservare il potere. Perché Ali, Jacques come anche tanti altri giornalisti nel mondo non accarezzavano il potere, non lo corteggiavano per compiacerlo. Ma ne denunciavano le irregolarità, gli affari sporchi, i soprusi, le ingiustizie. Semplicemente con la parola. E una missione nel cuore: dare voce a chi non ce l’ha.



Fotografie e testi di Vincenzo Sassu