venerdì 27 novembre 2009
Il Coraggio di raccontare
Questo reportage racconta l’attività della “Maison des Journalistes”, l’associazione francese che dal 2000 accoglie i giornalisti vittime di torture e persecuzioni fuggiti dai loro paesi d’origine. Nella sua sede a Parigi ho incontrato reporter sviliti dal passato, nostalgici di famiglie e affetti lasciati a casa, di fughe tristi, provanti. Ho ascoltato le parole di chi ha sacrificato la vita per gli altri, denunciando i soprusi e le angherie subite dai loro popoli, soffocati dal gioco del potere. Uomini e donne che hanno raccontato le brutture dei loro governanti, le ingiustizie di esistenze vissute a metà, trascorse nel timore della violenza, in Paesi dove la libertà di stampa è solo un miraggio. Giornalisti che hanno lavorato con passione. E con una missione nel cuore: dare voce a chi non ce l’ha.
PARIGI. Bagnata dalla luce autunnale, la scultura di Anna Politikoskaja con il viso raccolto tra le mani e lo sguardo perso nel vuoto, assorto, è il gioiello di casa, della “Maison des Journalistes”, l’associazione che dal 2000 accoglie i giornalisti che richiedono asilo politico in Francia. É l’opera che attrae gli sguardi di prima mattina, rasserena gli animi di giornate stanche e ridefinisce i sogni ormai sfocati di cronisti lontani dalle famiglie, dai propri affetti, dalle gioie della quotidianità. Come un pennello, li disegna ancora una volta, dandogli i colori vivi della speranza. Di una vita nuova a Parigi, all’ombra della Tour Eiffel o chissà dove. Ma lontani dal proprio Paese che hanno lasciato d’improvviso per salvare la vita. Viaggi lunghi, notti insonni e giornate strazianti, con il cuore in gola per la paura di essere inseguiti, picchiati o uccisi. Hanno lasciato l’Afghanistan, l’Algeria, il Cameroun, Haiti, il Congo, il Togo, la Turchia e tante altre nazioni. Dove non potevano più parlare, scrivere o mangiare. Vivere. Persone coraggiose che hanno scelto di essere giornalisti in una terra che non li accettava, sfidando gli uomini di potere che volevano reprimerli perché con coraggio informavano sulle brutture dei governanti o di chi li sosteneva.
Peregrinazioni tormentate le loro, prima di arrivare a Parigi, al numero 35 di rue Cauchy ed unirsi alla grande famiglia di reporter costretti a fuggire per aver sostenuto la nobile causa della libertà di stampa. Ad accoglierli, l’anima di due giornalisti, il loro coraggio, la speranza che infondono e lo sguardo che rasserenano: Danièle Ohayon e Philippe Spineau, i fondatori della “Maison des Journalistes”, che dal 2002 ha dato ospitalità a 172 reporter di varie nazionalità, 30 ogni anno. «Sono persone che hanno un grande bisogno di parlare, di confidarsi, di raccontare le esperienze tragiche vissute. Hanno voglia di condividere. Di iniziare una nuova vita. Qui alla “Maison” ricevono sostegno, consigli e un luogo per riflettere», racconta Danièle Ohayon nel suo studio, impreziosito di foto e ricordi di vignettisti, reporter di carta stampata, radio e televisione che negli anni sono passati da quella stanza. Per avere un letto, un piatto caldo, un ideale in cui credere ancora, una speranza. Uomini e donne con molti anni di esperienza professionale alle spalle. Che spesso avevano assunto incarichi importanti all’interno delle loro redazioni. E per questo hanno lasciato sulla scrivania inchieste, reportage, interviste. Articoli che avrebbero potuto contribuire a cambiare le sorti della nazione. A rendere consapevoli afgani, congolesi, cubani, turchi, cinesi e tanti altri popoli del giogo che li soffocava, delle minacce che ne frantumavano il respiro.
Alla “Maison des Journalistes” i giornalisti possono trattenersi al massimo sei mesi, il tempo medio necessario per ottenere lo status di rifugiato politico. Durante questo periodo di attesa, la legge non li autorizza a lavorare, perciò nella nuova residenza iniziano a studiare il francese, scrivono per il trimestrale dell’associazione e cercano di rifarsi una vita. «Purtroppo solo una minima percentuale continua a fare il reporter qui in Francia. Ed è un vero peccato, perché per i media francesi sarebbe davvero interessante lavorare con giornalisti rifugiati, magari proventi dalle ex colonie. In genere, i più giovani riprendono a studiare, la maggior parte si improvvisa nei mestieri più disparati: autista, ristoratore, informatico, guida museale, operaio. Mi vengono in mente le parole di un giornalista, rifugiato politico, che ora lavora in una delle radio più importanti francesi: “Cercavo lavoro, volevo continuare a fare il giornalista. Ma quando andai all’ufficio di collocamento mi risposero che per me c’era solo un posto di addetto alla sicurezza. E io risposi: “Ma come, io dovrei proteggere i francesi? In realtà, pensavo che foste voi a dover proteggere me!”. Un’altra bella storia è quella di un cronista del Senegal che, dopo aver ottenuto l’asilo politico, frequentò una delle migliori scuole di giornalismo in Francia. Nessuno però volle assumerlo come giornalista. In mancanza di un lavoro, si rimboccò le maniche e, per sopravvivere, iniziò a lavorare in una lavanderia. Di cui poi divenne il responsabile. Nel frattempo creò un giornale gratuito per la comunità africana in Francia. E iniziò a lavorare nella pubblicità. Questi sono solo degli esempi, ma col tempo si moltiplicheranno. Sono persone in gamba, che ripartano da zero dopo aver rischiato la vita per gli altri. Siamo davvero molto orgogliosi di accoglierli e dare loro la possibilità di una nuova vita». Usciti dal suo studio, visitiamo l’edificio. Ci lasciamo risucchiare dal silenzio che si sposa con i bagliori tenui del pomeriggio autunnale per regalare agli oggetti, ai muri, alle stanze un’aura di pace, di tranquillità. La “Maison des Journalistes”, proprio come dice il suo nome, è una vera e propria casa disposta su tre piani, un mondo in cui tutto sembra scorrere lento. La cucina, la sala lavanderia, la sala TV e la sala lettura sono universi lontani anni luce dalle tribolazioni patite dai giornalisti prima della fuga, dalle torture subite. Da quel pensiero ricorrente: “Meglio morire, per soffrire così”. Appese sulla porta di ogni stanza, le targhette di Canard Enchainé, RFI, Canal Plus e dei media francesi che, insieme al Fondo Europeo per i Rifugiati sostengono la “Maison”, coprendo le spese di funzionamento.
Mentre scivoliamo lentamente lungo i corridoi, arriviamo in un piccola sala dove due reporter lavorano alla versione elettronica dell’“Oeil de l’exilé”, l’occhio dell’esiliato, un magazine trimestrale che permette ai residenti di praticare la professione e comprendere i meccanismi della stampa francese. A darci il benvenuto, il sorriso di Jean Jacques Jarel, un giornalista del Gabon, arrivato alla “Maison” nel mese di agosto. É il suo compleanno. Ha gli occhi acquosi della commozione, come due grandi paludi. «Sono laureato in filosofia, ma non ho mai insegnato. Ero giovanissimo quando diventai giornalista. Avevo appena 19 anni e durante la mia ventennale carriera ho lavorato nella stampa, nella radio e nella televisione del mio Paese».
Osservandolo mentre parla, il suo viso cambia, sembra una tela, dove le parole dipingono l’espressione entusiasta degli inizi, del primo articolo, del primo servizio radiofonico. Poi, dopo l’impeto iniziale, quello dei ricordi giovanili, dei colori vivi, il suo sorriso si spegne e la tela si tinge di grigio, delle sfumature cupe della fuga, di quella telefonata, di quella voce: “Scappa, ti stanno cercando”. «Era la mattina di qualche mese fa e avevo appena trasmesso la notizia della malattia che aveva colpito il nostro presidente, costringendolo ad un ricovero ospedaliero a Barcellona. A voi, potrebbe sembrar strano, il vostro è un Paese democratico. Ma in Gabon e in tante altre nazioni diffondere notizie come queste porta alla prigione, alla tortura. Per il popolo, il presidente deve rappresentare la perfezione, il “Dio in Terra”. Non è lecito conoscere le sue condizioni di salute, i suoi problemi, le sue difficoltà. E se qualcuno prova ad informarne, allora scatta la persecuzione. Ero consapevole che diffondendo una notizia del genere avrei rischiato molto. Ma l’ho fatto per informare i miei connazionali. Perché quello era il mio dovere. Da noi, i diritti umani non esistono, la libertà di stampa è solo un miraggio. E se vuoi fare il giornalista e non rischiare la vita, devi accarezzare la pelle del potere».
In Francia, Jacques vorrebbe continuare a lavorare come reporter: «Sono consapevole che qui sarà molto difficile, il mercato dei media è chiuso. Perciò, almeno inizialmente, cercherò di trovare un lavoro che mi permetta di nutrire la famiglia e vivere. Non amo l’assistenzialismo. Il mio piano è chiaro: riprendere gli studi e conseguire una laurea nella mia nuova Patria, perché qui un titolo “made in Africa” ha poco valore». Il pensiero delle figlie, della moglie, della sua terra lo accompagna. E gli dà coraggio. La voglia di integrarsi nella società francese lo stimola. Lo entusiasma. Proprio come Ali Muhaqiq Nasab, un reporter afgano, anch’egli residente nella “Maison”. Spingendo la porta della sua stanza, i suoi occhi appaiono rilassati, la sua espressione distesa. É un uomo di mezz’età, dal viso bonario. Sembra smanioso di mostrarci il suo computer, dove gira un CD che traduce alcune frasi idiomatiche dalla lingua farsi, la sua, a quella francese, del Paese che lo accoglie. “Ero caporedattore del mensile di Kabul Haqoq-e-Zan (Women’s Rights) e denunciavo i soprusi e le angherie subite dalle donne. Per questo nel marzo 2008 sono stato arrestato vicino a Teheran. Poi qualcuno entrò in casa e sequestrò i miei documenti, il telefono e il mio computer». Già nel 2005, Ali fu fermato in Afghanistan e detenuto per due anni con l’accusa di aver pubblicato degli articoli contro la religione islamica. Scriveva di donne, si batteva per i loro diritti, quest’uomo di mezz’età, dagli occhi profondi. E come Jacques lo faceva con passione. Con spirito critico. Denunciando la difficile condizione dei loro popoli. Quella che i governanti volevano celare per conservare il potere. Perché Ali, Jacques come anche tanti altri giornalisti nel mondo non accarezzavano il potere, non lo corteggiavano per compiacerlo. Ma ne denunciavano le irregolarità, gli affari sporchi, i soprusi, le ingiustizie. Semplicemente con la parola. E una missione nel cuore: dare voce a chi non ce l’ha.
Fotografie e testi di Vincenzo Sassu
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