giovedì 30 aprile 2009

«Avenida de America? Ultima parada»


Una luce forte, un caldo penetrante, un calore profondo. E’ la prima immagine, la prima sensazione di questo pomeriggio assolato di fine aprile all’Aeropuerto Barajas de Madrid. La pista è deserta, impregnata dell’odore di gomma bruciata dei carrelli d’atterraggio. In lontananza l’orizzonte si sfuma, sfocato dai raggi solari. E il bianco delle strisce dipinte sulla pista, il grigio dell’asfalto, l’azzurro del cielo e il giallo paglierino della vegetazione sembrano fondersi in un unico colore indistinguibile.

L’aeroporto sembra riposare. Godere di una siesta primaverile dal sapore estivo. La gente si muove lentamente, qualcuno dorme, rannicchiato in poltrone d’acciaio dall’aria rinfrescante. E’ un grande aeroporto, una struttura moderna, popolata di giovani turisti europei all’ultima moda e famiglie sudamericane che sembrano uscite dalle telenovele argentine anni ’70. I primi, esaltati nelle loro magliette fluorescenti e All stars dai mille colori; le seconde ricoperte di lunghi vestiti in cotone dalle fantasie floreali.

Poi, ci sono i manager, i vagabondi delle multinazionali irrigiditi nei loro abiti indistinti, con i nodi delle cravatte allentati, a sbuffare di stanchezza accumulata per un viaggio dall’itinerario prestabilito: aeroporto, colloquio lavorativo, passeggiata-lampo per il centro, autobus, aeroporto. Spesso nel giro di poche ore. Nella ventiquattrore, la firma incomprensibile di un accordo commerciale, qualche souvenir per la famiglia. E tanto stress.

Raccolte le valigie, ci ritroviamo insieme nel autobus per il centro di Madrid. Dietro, negli ultimi posti, i giovani allegri nel pregustare la movida madrileňa. Al centro, le famiglie sudamericane anni ’70 emozionate per l’incontro con un parente lontano. Davanti, i manager già logori di stress, che osservano l'allegria dei giovani e per un attimo sognano di tornare ragazzi. Ai tempi delle gite scolastiche e di «com’era bello divertirsi senza “giacca e cravatta”».

Il motore inizia a strepitare.

«Avenida de America? Ultima Parada»


Testi di Vincenzo Sassu

sabato 25 aprile 2009

Il tratto dell'artista

Il cielo è chiarissimo da quassù. Come sospesi in un limbo, rari banchi nuvolosi si muovono allungandosi al di sotto della carlinga e proiettando le loro ombre su paesini sperduti nella campagna, umili lavoratori, coraggiosi braccianti. E qualcuno, che oltre il vetro di una finestra vede la nostra scia e avrebbe voluto toccarla.

D’improvviso il mare, il blu intenso del mare. E barche minuscole, come un’infinità di puntini bianchi sospinti dal vento. Due piccoli borghi isolati e un fiume, lungo come un’anaconda, che serpeggia attraverso i campi spagnoli. Terreni di colori e forme svariate. Trapezoidali, quadrati, triangolari. Verdi, rossicci, marroni e senape.

Una nebbia leggera, il tratto delicato dell’artista.

Testi di Vincenzo Sassu

giovedì 23 aprile 2009

In volo

Come lame taglienti, le creste innevate alpine si protendono verso l'alto, sfiorando quasi la carlinga del veicolo. Rarefatta l'atmosfera, candida la luce, soffici le nuvole: una distesa di zucchero a velo.

Testi di Vincenzo Sassu

martedì 21 aprile 2009

Noi, madri teenager

LONDRA. «Mum, mum, can you hear me? I need some water». Mamma, mamma puoi sentirmi, ho bisogno di un po’ acqua. Lo stridore del contatto tra la ruote e le rotaie è penetrante e sembra coprire quelle voci, che pian piano si fanno più acute. Dopo una lunga sosta alla stazione di Barking, zona est di Londra, la metropolitana inizia a muoversi lentamente, come un vecchio treno che sbuffa, affaticato, attraversando le grandi pianure americane. «Mum, mum, can you hear us. We need some water». Mamma, ci puoi sentire, abbiamo bisogno di un po’ d’acqua. Ora le voci sono due, cambiano, diventano urla. Lamenti di pianto. «Keep quiet, keep quiet, your mum is going to give you some water, but don’t cry». Tranquilli, tranquilli, la vostra mamma vi darà un po’ d’acqua ma non piangete. Sussurra, quasi intimorita, una ragazzina mentre porge loro due biberon. Nel suo maglione, una spilla. Sulla targhetta, un nome: Julie. «Scusate, sono ancora piccoli e io troppo giovane, forse». Forza di volontà, coraggio e un briciolo di rassegnazione si fondono in quelle parole e nello sguardo di quella giovane madre delle due gemelle.

«Ho avuto Ivonne e Sophia quando avevo sedici anni e andavo ancora scuola. Mio padre ci aveva appena lasciati, era scappato di casa, abbandonandoci alla nostra sorte. Mia madre invece lavorava saltuariamente in un’impresa di pulizie, proprio come me». Racconta la ragazza, in un treno quasi vuoto che procede verso il centro città, attraversando quella che un tempo era la periferia londinese ed ora fa parte di una metropoli, che pare infinita. «Purtroppo non posso permettermi di pagarmi una babysitter e porto con me le bimbi al lavoro. A volte il mio datore protesta un po’, ma d’altronde se non le portassi con me non saprei davvero come fare ad andare avanti. I soldi che guadagno mi bastano appena per sopravvivere: mangiare, pagare l’affitto e occuparmi delle piccole», mentre parla Julie osserva i gemelli e in quel sguardo c’è tutta l’incertezza di un presente che attende fiducioso il domani. Il suo racconto sulla Direct line dell’underground finisce ad Aldgate east, ad una fermata da Liverpool Street Station, stazione del centro economico londinese: «Ora devo andare, mi aspetta l’autobus per Hackney, il quartiere in cui abito». Julie si solleva adagio, prepara le bambine, avvolgendole in una vistosa sciarpa rossa e bianca con la scritta “Arsenal”, una delle squadre calcistiche più rappresentative della città. Poi alza timidamente una mano screpolata e segnata dalla fatica e saluta, abbozzando un timido sorriso. Scende lentamente dal treno con il passeggino. E si allontana a piccoli passi sulla banchina quasi deserta.

In poco più di mezz’ora raggiungerà Hackney, quartiere del nord est di Londra, tra le zone della Capitale con la più alta percentuale di ragazze madri.Secondo i dati diffusi dall’organizzazione no-profit “Every child matters” che promuove numerose politiche di sostegno a favore dei giovani, nel 2006 ad Hackney, 214 giovani ragazze come Julie sono rimaste incinte ed il 69% di loro ha deciso poi di abortire. In termini di gravidanze adolescenziali, a Londra, la zona è seconda solo a Lambeth, una circoscrizione centralissima a pochi chilometri da Waterloo Bridge e da Soutbank, aree che portano verso l’abbazia di Westminster.

Non solo nella Capitale, ma in tutta la Gran Bretagna, il numero di gravidanze adolescenziali è molto alto. Il tema è tornato alla ribalta della cronaca nel febbraio scorso, quando il quotidiano “The Sun”, pubblicò il primo piano di un ragazzino con in braccio un neonato: “Dad at 13”, papà a tredici anni, il titolo a caratteri cubitali. La storia di Alfie Patten e della sua ragazza quindicenne, Maisie Roxanne, fece poi il giro del mondo. Secondo i dati diffusi appena qualche giorno fa dall’Ufficio nazionale di statistica anglosassone, nel 2007, in Inghilterra e Galles, più di 43.000 giovani sotto i 18 anni sono rimaste incinte, il 4,8% delle gravidanze complessive in Gran Bretagna. Ad aumentare in particolare è stata la percentuale di ragazze madri al di sotto dei 16 e tra i 13 e i 15 anni. La cifra più alta in tutta Europa: sei volte superiore all’Olanda, quattro all’Italia e tre alla Francia. Inferiore solo agli Stati Uniti tra i paesi del mondo occidentale.

«Questi dati sono solo la punta dell’iceberg, il problema più grande è infatti il numero crescente di giovani che intende il sesso quasi come un’attività ludica. Un atteggiamento che porterà ad un numero sempre maggiore di gravidanze in giovane età e alla trasmissione sessuale di infezioni, causando anche seri danni emotivi che potrebbero rendere davvero difficile un futuro rapporto matrimoniale intimo e appagante», afferma Norman Wells, direttore del Family education Trust, un’organizzazione indipendente fondata nel 1973 con l’obiettivo di individuare le cause che portano alle rotture familiari. Nel 1999, il governo laburista adottò la “Teenage pregnancy strategy”, un programma specifico, attualmente in vigore, allo scopo di dimezzare il numero di gravidanze adolescenziali entro il 2010: un’azione coordinata per contrastare le cause ed affrontare le conseguenze di quello che, in Gran Bretagna, è considerato come uno dei più seri problemi sociali. Nel tempo, l’Unità predisposta dal Governo è stata però duramente criticata: nonostante i 286 milioni di sterline spesi, i risultati infatti sono stati inferiori alle aspettative e dopo una flessione nei primi anni, dal 2005 il tasso di gravidanze in età precoce è tornato a crescere. Non sono così bastati i costosi investimenti a favore delle campagne anticoncezionali per l’uso del preservativo, della pillola del giorno dopo e a favore della promozione dell’educazione sessuale anche nelle scuole.

In un café del centro londinese, incontriamo Suzie, ragazza inglese di 26 anni. Si nasconde dietro un paio di occhiali neri, montatura anni ’70, come la moda giovanile prescrive. La sua carnagione bianca, contrasta con una folta chioma di cappelli rossi, raccolti dietro la nuca da un’infinità di nastrini colorati. «Penso che una delle cause principali del problema sia il deterioramento dei valori familiari, in Gran Bretagna la famiglia ha perso centralità che aveva. Sono sempre più numerose infatti le madri che crescono da sole i propri figli, perché abbandonate dai partner prima e dai genitori poi». Mentre parla, Suzie si perde nello sguardo, ricordando qualcosa, qualcuno. «Mia cugina – continua – ha vissuto lo stesso dramma: è rimasta incinta molto presto, ha lasciato la scuola, è andata a vivere con il suo giovane compagno e la sua vita è cambiata. Ora fa fatica a trovare lavoro, anche temporaneo, e ha smesso praticamente di vivere. Non so come potrà crescere il piccolo Nick». Le sue ultime parole, dedicate al nipote, si colmano di tristezza ed un velo di compassione si stende sul suo viso.

Per contrastare il problema, recentemente, il Dipartimento della Salute ha annunciato un ulteriore stanziamento di 20,5 milioni di sterline: facilitare l’accesso ai contraccettivi e rendere i giovani maggiormente consapevoli delle malattie trasmissibili con il sesso non protetto, sono gli obiettivi della manovra. Un provvedimento che ha già ricevuto le prime critiche dalla società civile: secondo alcuni infatti la promozione dei metodi anticoncezionali e la pillola del giorno dopo ai minorenni, senza il parere dei genitori, sarebbe quasi un incitamento all’attività sessuale. «La “Teenage pregnancy strategy” è stata un disastro per i giovani – commenta ancora Norman Wells – e la promozione degli anticoncezionali per giovani sotto i 16 anni rende sicuramente più difficile per le ragazze resistere alle avances dei loro partner e aumenterebbe la pressione ad avere rapporti sessuali».

C’è da dire che, complessivamente dal 1998, anno in cui è iniziato il programma governativo, c’è stato il 10,7% in meno di gravidanze giovanili, benché negli ultimi anni le percentuali siano aumentate. Nel 2005 ad esempio, 7,462 ragazze sotto i sedici anni sono rimaste incinte, 281 in più rispetto all’anno precedente. Di queste, circa la metà ha interrotto la gravidanza. In poco tempo la percentuale di aborti legali è salita così dal 42% al 49% per le giovani non ancora diciottenni, e al 60% per quelle di età inferiore ai sedici anni.

In un centro ricreativo di Southwark, quartiere del sud di Londra, le fotografie a colori ed in bianco e nero appese sul muro raccontano di bambini gioiosi, che giocano su altalene e si rincorrono dietro ad un pallone. Raccontano di anziani che organizzano eventi di beneficenza, mangiano insieme e scherzano tra loro. Parlano di ragazze, parte fondamentale della comunità, che chiacchierano serenamente: «Tante di loro, nonostante l’età, sono mamme, altre l’avrebbero potuto essere – mi dicono due signore sulla quarantina mentre allestiscono la sala per una recita serale – Le accogliamo qui, parliamo con loro e cerchiamo di capire i motivi dell’aborto, spesso accompagnato da traumi al livello psicologico». E’ ancora presto. Lo spettacolo sarebbe iniziato di lì a poche ore. Una delle due donne, quella più spigliata, mi indica così la foto di una giovane, un primo piano molto intenso: «Quella ragazza, rimase incinta a 18 anni, ma spaventata dalla reazione che avrebbero potuto avere i genitori, decise di abortire. E ne è rimasta profondamente segnata. Non aveva più una vita sociale, viveva il dolore, senza parlarne. Non usciva quasi più. Aveva perso la gioia di vivere». La sua voce si faceva sempre più bassa, quasi impercettibile mentre il suo sguardo si posava sulla foto. Poi il silenzio, per qualche secondo. E con orgoglio: «Ma noi l’abbiamo accolta e l’abbiamo fatta sorridere. Ancora».

Secondo le statistiche pubblicate dal Dipartimento della salute nel 2008, in Inghilterra e Galles il numero di aborti è stato di 201,173, il 22% dei 867,00 concepimenti. In Inghilterra l’aborto è stato legalizzato nel 1968 e, da allora, ogni anno, circa una quarto delle donne incinte decidono di interrompere la gravidanza. Secondo questi dati, la Gran Bretagna potrebbe presto raggiungere la più alta percentuale di aborti di ogni altra nazione occidentale. In tanti sono pronti a sostenere che, per far fronte alle gravidanze adolescenziali, gli sforzi si siano concentrati esclusivamente su una parte del problema, la diffusione dei contraccettivi, sottovalutando numerosi altri fattori, come ad esempio l’educazione sessuale a scuola, ancora poco praticata. «Insegno da più di un anno qui in Inghilterra e sono tra i pochi ad affrontare temi legati alla sessualità. Nella maggior parte dei casi i ragazzi si imbarazzano a parlarne, perché raramente sono stati abituati a farlo», sostiene Roberto, giovane insegnante italiano in una scuola londinese. «Anche trattare il tema con i colleghi non è sempre facile, non ci sono programmi da seguire e quando si riesce a discutere dell’argomento, i ragazzi lo prendono con troppo leggerezza, minimizzandone l’importanza». Al riguardo, un studio recentemente effettuato dalla YouthNet, un’associazione di beneficenza per la guida e il supporto ai giovani, ha rivelato come il 42% dei ragazzi intervistati ritenga di non avere avuto abbastanza educazione sessuale a scuola e più del 30% abbia avuto rapporti non protetti di una notte in stato di ubriachezza.

Sono le cinque del pomeriggio di una giornata umida quando alcuni genitori si raggruppano davanti al cancello verde della scuola in attesa della fine delle lezioni. Chiacchierano, sorridono, si scambiano impressioni, pareri. Poi, quasi d’improvviso, ecco aprirsi la porta principale ed un gruppo di bambini correre all’impazzata lanciandosi, con grida di gioia, sulle braccia dei genitori. Alcuni li stringono forte, altri li sollevano in alto sorridendo, altri ancora iniziano a passeggiare verso l’automobile posteggiata nel parco vicino. Ci sono Musulmani e cristiani, bianchi e di colore, orientali o africani di origine.

L’uscita dalla scuola è una festa per tutti, una gioia per genitori e figli. Non per Louise, 20 anni, capelli biondi, color camomilla e occhi chiari, di un verde che pare smeraldo, appannato da una malinconia profonda. Sembrava lo sguardo di un cucciolo di pochi mesi, percosso e abbandonato. «Louise, che piacere vederti. Come stai? Oggi il bambino è stato tra i migliori. Sai, abbiamo organizzato dei giochi durante la pausa ed è stato tra i più bravi», commenta una signora robusta, ma dal passo svelto, agile. Louise accenna ad un sorriso, senza emozione. Osserva il bambino e suoi occhi si animano di uno sguardo materno, ma privo di entusiasmo. Poi accarezza il viso del piccolo, lo prende per mano, saluta timidamente e sulle sue guance si formano due fossette. E si allontana.

«Louise, aveva 17 anni quando ha partorito Michael, poco dopo è entrata in uno stato di depressione, che ancora, nonostante le cure, non l’ha abbandonata completamente», dice Jane un’insegnante sulla cinquantina, capelli scuri, ondulati ad incorniciare un’espressione bonaria.Louise vive un dramma frequente in Gran Bretagna, dove le ragazze madri spesso soffrono di depressioni post natali e sono afflitte da problemi mentali fino ad alcuni anni dopo il parto. «Rimase incinta per sbaglio. Una sera durante una festa, conobbe un ragazzo, si frequentarono qualche mese, poi concepirono il bambino. Ora vivono insieme, ma lui è disoccupato, lavora saltuariamente e spesso abusa di alcolici», le parole di Jane si trascinano stancamente l’una dopo l’altra. Poi come una fiammella, ravvivata da un improvviso alito di vento, si ravvivano, acquisendo vigore e speranza. «Spesso la invito a casa a passare qualche ora di serenità. Ora siamo più fiduciosi, gli specialisti che la stanno seguendo dicono che abbia fatto molti progressi negli ultimi mesi. Michael ha bisogno di una mamma, una madre che abbia voglia di vivere».

Mentre parla, il cielo si apre pian piano, il sole inizia a tramontare, squarciando le nuvole. Lungo il viale, Louise cammina in lontananza verso casa, poi si ferma, allunga il dito e sembra indicare il sole al piccolo Michael. Quei colori rappresentano per lei il desiderio, la speranza di ritrovare una luce in quegli occhi che sembrano due laghi grigi, dimenticati. Una luce che squarci la malinconia e le ridoni la vita.

Testi di Vincenzo Sassu

domenica 19 aprile 2009

Lotta danzante

Il cielo cupo, il cielo grigio, il cielo sereno. A tratti. In quell’ultima passeggiata sulla campagna bagnata della Gallura, c’era il sole. Era lì. Ne percepivo la presenza. Ne sentivo il calore. Ma era coperto da una fitta coltre di nuvole, da cui avrebbe voluto sfuggire. E qualche volta ci riusciva. Sembrava di sentirne il rumore sordo dello sforzo. Della voglia di combattere quel grigiore e riemergere da lassù. Così, d’improvviso, una parte di cielo si rasserenava. Ma durava poco. Uno sforzo estremo, un impeto che toccava l’apice solo per un attimo, per poi ricadere giù con violenza. Sopraffatto da quella fitta coltre di nuvole che ingrigiva il monte, riflesso nella vetrata di casa. Che incupiva le luci di quel paesino in lontananza, appeso sulle colline. E rabbuiava gli alberi d’intorno. Mettendo a tacere i rumori della natura, i versi degli uccelli e gli scricchiolii degli alberi. Mettendo fine a quella lotta danzante, di destini contrapposti, di forze antagoniste di vincitori e vinti. Poi l’arrivo della notte. Qualche stella. E il Silenzio

Testi di Vincenzo Sassu

Mutevole

Piove sulla campagna. Una pioggia leggera, quasi impercettibile, ma costante. L’erba, gli ulivi, le mimose e le palme sovrastate dal grigiore di un cielo che sembra immenso. Le nuvole si muovono audaci, spinte dal vento, come fumi che si diffondono nell’aria, disegnando forme sorprendenti, meravigliose e nascondendo le cime dei monti.

Testi di Vincenzo Sassu

Impeto marino

Dai bastioni, il mare di Alghero si agita impetuoso, come una furia. La notte lo avvolge, inghiottendolo misteriosamente nel punto dove il cielo e il mare si incontrano: nell’orizzonte. Lo percepisci quando si avvicina e scuro si infrange sulle rocce. Ne senti l’odore. Quello che ti appartiene, che negli anni ti faceva sperare, sospirare, sognare. Che impregnava i capelli, la pelle e i vestiti. Quello che ti porti dentro e fuori. Ovunque tu sia.

Testi di Vincenzo Sassu

Melodia Jazz

Soffia un vento forte che agita le foglie a Mores, il mio paese. Ne sento il fruscio oltre la finestra della mia stanza affacciata nel verde della mia Isola. Una melodia jazz, leggera, accompagna il mio sguardo sulla campagna: Il tremolio degli alberi, le corse del cane che apre sentieri sull’erba seguendo il volo di uccelli che si innalzano funambolici nell’aria. Il cielo è bianco, è azzurro, è grigio. Le sfumature dei colori lo rendono caldo. Sembra un quadro, un acquerello di Van Gogh. Di tanto in tanto il sole fa capolino tra le nuvole, a fatica, irradiando le chiome degli ulivi. Nei giochi di luci e di ombre anche gli uccelli cantano, qui, sul davanzale della finestra. Cantano la primavera, il bel tempo che verrà. Cantano la natura. Cantano la vita.

Testi di Vincenzo Sassu

Traversata

Durante la notte ho varcato il mare, da Civitavecchia verso la Sardegna. Immobile sulla prua ho visto il Continente spegnersi pian piano, ho udito le voci affievolirsi, le grida fioche dei bambini allontanarsi, gli odori della città smarrirsi nel profumo del Tirreno. Lentamente lo scafo della nave fendeva le onde del mare che si agitava, spruzzando lacrime di schiuma sulla stiva. Gocce che lasciavano la traccia di piccoli grumi di sale sulla pelle. La mia isola mi parlava nel buio. Mi raccontava di ricordi, di odori selvaggi, di persone, di luoghi. Per una notte intera.

Testi di Vincenzo Sassu

Una nave chiamata "Nuraghes"

Avrei dovuta vederla dall’alto. Avrei dovuto osservarne le coste, riconoscerne i monti, scorgerne sentieri, accenni boschivi, laghi e rivoli d’acqua. Avrei dovuto sorprendermi per il suo verde scurissimo dopo le intense piogge invernali e primaverili. Ne avrei dovuto ammirare i paesini e le città: Olbia, Sassari Porto Torres, Stintino, Alghero. L’avrei dovuta vedere dall’alto, a 10 mila piedi di altezza, questo pomeriggio. Oltre il vetro di un finestrino, troppo piccolo per poterla contenere tutta. Per contenere tutta l’impazienza maturata in sette lunghi mesi di permanenza oltre Manica, a Londra.

Ed invece sono qui, in questa nave. Per un biglietto aereo andato male. Per un problema tecnico che mi ha impedito di prendere quel volo e mi ha spedito qui, in treno, in questo porto, su questa nave chiamata “Nuraghes”. Seduto su una poltrona. Circondato da persone mai viste prima, ma dall’aria familiare. I lineamenti del viso, il taglio degli occhi, le sopracciglia, la carnagione olivastra. E il modo di gesticolare, di parlare e gli accenti. Quello barbaricino e quello gallurese. Di ragazzi, nonni e genitori. Di gente che ha lasciato l’Isola per rincorrere i propri sogni, per acchiappare speranze e soddisfare necessità. Di immigrati stranieri che la vivono ormai da anni e attraversano il Tirreno per incontrare i connazionali residenti nella Capitale, fare il pieno di ricordi, di nostalgia e mercanzie da vendere in Sardegna.

E invece sono qui. Quando avrei voluto essere là. A neanche duecento chilometri di distanza, in Abruzzo. Dove la terra ha tremato, aprendosi e inghiottendo tra le sue fessure i sogni dei bambini, le speranze dei genitori, le ambizioni dei ragazzi. Avrei voluto essere là a raccogliere i sogni di quei piccoli, a rigenerare le speranze di padri, madri, nonni e zii, a risollevare le ambizioni di Antonio e Maria, Stefano e Francesca, Giovanni e Lucia. E chissà quanti altri ancora, ragazzi come noi. A dare una mano, a sporcarmi le mani di calce, di cemento. A sorridere per una vita salvata. Inaspettatamente. E poi a tarda sera, scriverne. Raccontarne le prime impressioni. Di vite rinate, di grida inghiottite. E di Speranza. Nonostante tutto.


Testi di Vincenzo Sassu