martedì 19 maggio 2009

Dal Messico agli Stati Uniti: l’abbandono di Enrique


“Sono passati otto anni e quella fu l’ultima volta che sentii la sua voce”. La fuga di una madre verso gli Stati Uniti e una telefonata improvvisa: il racconto di un figlio, Enrique, un ragazzo messicano abbandonato in una notte d’estate.


Enrique teneva la sigaretta in modo particolare, come non avevo mai visto. Tra l’indice e l’anulare, con il medio che si arcuava, come un ponte. “Avevo tredici anni, era di uno di quei caldissimi pomeriggi messicani. E durante l’ora della siesta, io e gli amici cercavamo riparo in una vecchia casa diroccata. Ricordo ancora il profumo, le crepe sui muri, le nostre ombre che si allungavano sulle pareti e i raggi di sole che penetravano tra le fessure della porta in legno”.

Mentre parla, Enrique guarda oltre la finestra che si affaccia su Calle Sagasta, una via elegante, ombrosa, popolata del centro di Madrid. Ha il viso tondeggiante e uno sguardo sincero, bonario. Di tanto in tanto si tocca i capelli lisci, di un castano chiaro, pettinati all’indietro. “Vuoi una tequila?”, mi chiede, mostrandomi la bottiglia. “Pura Tequila messicana. E’ un marchio di qualità”, dice con orgoglio mentre la agita delicatamente sollevandola in alto.

“In quelle giornate, qualcuno portava le cartine, altri il tabacco. E fumavano le prime sigarette, nascostamente. Rollare una sigaretta era come un rito che innescava una competizione: facevamo a gara a chi avrebbe fatto la sigaretta migliore, quella che avresti potuto trovare nei pacchi di Marlboro dal tabaccaio”. Ricordandosi quei giorni, si siede sul pavimento, spalle al muro e gambe incrociate: “Stavamo proprio così, seduti in cerchio a tentare “l’impresa”.

La sigaretta intanto si consumava piano: “Vedi, il tempo è così crudele. Pensavo che mi aspettasse e invece anche le se ne va via così, senza far rumore, proprio come mia madre quella notte d’estate. Proprio come la mia adolescenza, consumatasi così ‘in pochi minuti’ come questa”, dice osservando impotente il mozzicone fumante.

“Erano pomeriggi piacevoli di anni tristi, mia madre ci aveva appena lasciati: io, mio padre e due sorelle. Ed era corsa via, per inseguire il suo sogno: andare oltre la frontiera e arrivare negli Stati Uniti. Per mesi e mesi non sapemmo più niente di lei. Mio padre non ebbe il coraggio di rifarsi una vita e per qualche mese vivemmo in quattro in un monolocale a Città del Messico. Poi ci trasferimmo verso sud, dove mio nonno aveva un terreno ed una piccola casa in campagna”.

Poi, due anni dopo, in una serata piovosa d'estate lei ci chiamò. “Ricordo ancora nitidamente quando presi la cornetta del telefono e udii quella voce familiare, che mi cullava da bambino, quel suono che credevo non mi avrebbe mai abbandonato: ‘Sono la mamma’, disse quasi singhiozzando. Non parlai. “Enrique sei tu? Dimmi qualcosa, ti prego. Dimmi qualcosa”.
Continuavo a vivere in uno stato di semi coscienza. Era quello che avevo sempre sognato: udire quella voce, ancora una volta. Ma in quel momento la rabbia per il suo gesto, per averci abbandonato e rincorrere il suo sogno là in America, mi impedì di parlare per un minuto, che pareva eterno.

Poi, riuscii a proferire un timido “Sì”. E allora le sue parole cominciarono a scorrere come un fiume in piena. “Perdonatemi, perdonatemi. In questi mesi mi siete venuti in mente, spesso. Non riuscivo a perdonarmi ciò che feci quella sera. Ricordo quando vi lasciai mentre dormivate. La brezza del vento che mi accarezzava la pelle e mi inondava di colpe. Salii su una carovana che ci lasciò in mezzo al deserto. Soffrii la fame, la sete. Di tanto in tanto osservavo la vostra foto. Ero allo stremo delle forze. Stavo per cedere. Tanti lo fecero. E morirono. Ricordo ancora il loro respiro affannoso. Le labbra secche e la pelle impolverata. I graffi sulle guance. Sembravano delle maschere. Poi arrivò qualcuno che ci caricò violentemente in un camion. Passammo la frontiera con la California. E iniziò un altro incubo. La richiesta dei documenti e la minacciata espulsione. Eravamo partiti con qualche risparmio. Corrompemmo un funzionario. Ottenemmo un passaporto falso. E fuggimmo da quello Stato, per arrivare a Chicago dopo qualche mese”.

“Mentre parlava mi vennero in mente milioni di cose, avrei voluto gridarle che se l’era meritato, che quella sofferenza era niente se paragonata alla nostra. Alle nostre lacrime, ai nostri sogni infranti. Alla nostalgia. Ma dissi solo una frase: ‘Sono contento di sentire la tua voce’. E la pronunciai mordendomi le labbra, fino a farle sanguinare.

In quel momento, i ricordi della mia fanciullezza, le carezze di mia madre, le litigate con i miei fratelli, i rimproveri, le gite familiari in campagna per andare a trovare i nonni mi ritornarono in mente, come un fiume in piena, per bagnare l’aridità di quei giorni. E recuperare interi mesi di lacrime versate.

‘Stai tranquillo. Non piangere. Sono tornata’. Me lo ripeteva forte, cercando di sopraffare i miei singhiozzi, i miei lamenti dell’animo. Le mie grida di rabbia e i sospiri di riconciliazione. Il freddo e il caldo, la luce e l’ombra, il silenzio e il frastuono si impadronirono di me. Mi presero le labbra, paralizzandomi la lingua. Mi guardavo nello specchio antico di fronte al telefono. E vedevo qualcuno. Ma non ero io.

‘Enrique, non posso dirti di più. Ti richiamerò presto. Ti voglio bene’, la sua voce interruppe quello che sembrava un incantesimo. Risvegliandomi. Cercai di dire qualcosa, di intenso, di profondo. Ma le parole si fermarono in gola. Poi si persero nell’animo e rimasero qui. Custodite nel cuore.

Sono ormai passati otto anni e quella fu l’ultima volta che sentii la voce di mia madre”.

Foto e testi di Vincenzo Sassu

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