martedì 20 luglio 2010

Cassintegrati dal carcere



Dal 24 febbraio gli operai della Vinyls hanno occupato l'ex penitenziario dell'Asinara. E la loro vertenza è diventata simbolo delle lotte di tutta l'isola

Uno specchio, un lavandino dove scorre acqua non potabile e un piccolo armadio. La cella numero 1 dell’ex carcere di Cala d’Oliva dell’Asinara è rimasta come tredici anni fa, quando il detenuto, che l’aveva occupata per venticinque anni per aver ucciso la moglie, la lasciò. In questa stanzetta, due metri per tre, da oltre due mesi, dorme Pietro Marongiu, 57 anni, cassaintegrato della società chimica Vinyls. «Il periodo più difficile è stato all’inizio, quando siamo sbarcati nell’isola», racconta seduto sul letto. «Certe notti di vento, il grecale gettava acqua a secchiate all’interno della cella. Ma, nonostante le difficoltà, non abbiamo mai pensato di lasciare l’Asinara. Siamo qui per le nostre famiglie e i giovani. Perché anch’io finii in cassa integrazione quando ero un padre poco più che trent’enne e so cosa significa non portare a casa lo stipendio per mesi».



Le sue parole danno voce ad Antonio, Emanuele, Gianmario, Antonello, Gianni, Tino, Amedeo e a tutti gli operai della Vinyls che vivono nell’Asinara dal 24 febbraio scorso, per dare un futuro ai propri figli e vivere con dignità. E in quest’isola, diventata il simbolo della lotta per il lavoro, trascorreranno la festa del Primo Maggio, invitando lavoratori in difficoltà, famiglie, persone solidali ad unirsi a loro: «Perché stiamo lottando per difendere i nostri diritti e quelli di tutti i lavoratori italiani in difficoltà». All’evento parteciperanno anche gli esponenti regionali dei sindacati e le delegazioni operaie di imprese in difficoltà come Eutelia, Electa, Alcoa, Eurallumina, Rockwool. «Celebrare la festa del Primo Maggio nel parco naturale dell’Asinara è un segno importante di solidarietà e vicinanza a chi lotta per il lavoro», spiega uno dei promotori dell’evento, Vincenzo Tiana, responsabile sardo di Legambiente. Così la pensa anche Silvio Lai, presidente regionale del Partito Democratico: «Sarà un evento significativo per tutta la Sardegna che soffre oltremodo la crisi economica che sta mettendo in difficoltà tutto il Paese senza possibilità immediate di rilancio».



Saranno centinaia le persone ad arrivare da tutta la Sardegna, una terra che vive il dramma di chi ha perso o sta perdendo il lavoro per un tessuto industriale fragile costituito da grandi società italiane e multinazionali estere che, sospinte dal vento della recessione globale, stanno decidendo di chiudere i battenti e far calare il sipario sull’isola. Ma i lavoratori sardi non ci stanno e danno battaglia in tutte le zone, da quella mineraria meridionale del Sulcis Iglesiente alla provincia di Sassari, nel nord. Nei mesi scorsi a manifestare erano stati gli operai dell’Alcoa, che lavorano ancora nell’attesa di una pronuncia definitiva di Bruxelles sul decreto legge governativo riguardo alle agevolazioni energetiche che dovrebbe convincere la multinazionale americana a non abbandonare la Sardegna. Ora ci sono gli operai della Vinyls che, dopo mesi di proteste in tutta la provincia, occupando l’Asinara hanno imposto la loro vertenza alle cronache nazionali. Perché non era bastato manifestare per le strade, andare sui tetti ed occupare le fabbriche per render noto il loro disagio, di famiglie che non sanno più come sopravvivere tra bollette e affitti da pagare, ragazzi da mandare a scuola, da sfamare. Affinché ci si accorgesse di loro hanno deciso allora di lasciare casa, di salutare moglie e figli ed occupare uno dei tredici carceri dell’isola, dove Falcone e Borsellino prepararono il maxi processo alla Mafia.



Solo così, con l’arrivo nella piccola isola in cui erano detenuti pericolosi banditi, assassini, brigatisti e mafiosi, la vertenza Vinyls ha varcato i limiti della realtà locale per diventare un affare nazionale e non solo, perché grazie ad un’abile campagna comunicativa su Internet e sul social network più celebre al mondo, Facebook, la vicenda dell’“Isola dei Cassintegrati” la conoscono ormai in Europa e oltreoceano. «Ci chiamano dalla Spagna, dall’Inghilterra, dalla Francia, dalla Germania. Si sono interessati a noi perfino dalla Australia e dal Canada. La solidarietà ricevuta ci commuove, aiutandoci ad andare avanti. In quest’isola siamo diventati un punto di riferimento e invitiamo tutti i lavoratori in difficoltà ad unirsi a noi». Mentre Pietro parla, interviene un signore, cappelli bianchi e viso incorniciato da una fitta barba bianca, sbarcato all’Asinara con la famiglia per sostenere gli operai: «Voi siete il simbolo della Sardegna e dell’Italia che lotta per il lavoro, non mollate».



Non molleranno i lavoratori della Vinyls, finché gli impianti di produzione della filiera del cloro non riapriranno i cancelli, chiusi ormai da mesi a causa del blocco da parte di Eni della fornitura di materie prime necessarie per la produzione del Pvc. In realtà Eni si era già impegnata nel novembre scorso a fornire l’etilene e il dicloretano all’ex azienda di Fiorenzo Sartor attiva a Porto Torres, Porto Marghera e Ravenna. Ma la società, ora in amministrazione straordinaria, non aveva ottenuto le fideiussioni necessarie dagli istituti di credito. Qualche mese fa è entrato però in scena un nuovo attore, la Ramco, multinazionale del Qatar, che sta trattando per l’acquisizione degli impianti. Tutti sono in attesa della chiusura della vertenza. Uno snodo importante potrebbe essere stato quello del 24 aprile scorso quando sono state aperte le buste del bando internazionale per l’affidamento degli impianti Vinyls. Dopo mesi di trattative la Ramco ha infatti formalizzato l’interesse all’acquisto degli impianti della Vinyls di Porto Marghera, Porto Torres e Ravenna. Al momento i cassintegrati sono però soddisfatti a metà: «Avremmo preferito che Eni si presentasse al bando, sbaragliando la concorrenza e prendendo tutto in mano. E questo doveva imporlo il governo, perché il ministero del Tesoro è il suo maggiore azionista e l’amministratore delegato viene nominato direttamente dal Consiglio dei ministri».



Intanto l’Italia vive un momento cruciale per il futuro della chimica. Quella dei cloro derivati è infatti una produzione strategica per l’intero compatto chimico nazionale, un settore nel quale per lungo tempo il polo di Porto Torres è stato all’avanguardia. Se la vertenza non venisse risolta a perdere il lavoro sarebbero in tanti. Perciò i cassintegrati dell’Asinara non molleranno, così come i dipendenti delle cooperative associate alla Vinyls. Perché finché gli impianti di produzione del Pvc di Porto Torres rimarranno chiusi, anche per loro non ci sarà lavoro. Tra questi c’è Antonello Pinna, 53 anni, cassintegrato della Eurocoop, società che si occupa della rifinitura del materiale prodotto dalla Vinyls. Sposato, padre di quattro figli, ha lasciato la famiglia e vive all’Asinara da circa un mese. È un uomo vispo, dalla battuta facile, che dietro l’apparente allegria, nasconde l’inquietudine di mesi trascorsi senza un centesimo di stipendio e i soldi della cassa integrazione che arrivano a singhiozzo. «Di recente siamo stati costretti anche a chiedere all’IACP una riduzione dell’affitto, perché non riuscivamo più a pagarlo. Anche mia moglie non ha un lavoro e, per riuscire ad andare avanti, abbiamo dovuto chiedere un aiuto economico al nostro figlio maggiore».



La cella numero 4 è occupata da Antonio Salaris, 26 anni e Piera Virdis. La loro storia d’amore è iniziata nel 2004, quando Piera aveva appena diciotto anni. Avrebbero voluto sposarsi quest’anno, ma Antonio, dipendente della Vinyls è in cassa integrazione da mesi. «Per fortuna non avevamo ancora versato alcun anticipo per il matrimonio, altrimenti non so come avremmo fatto. Stiamo anche cercando di costruirci la casa, ma i lavori sono fermi perché non possiamo più permetterci di pagarli», racconta Piera, parrucchiera disoccupata, che sogna di aprire uno studio tutto suo. «Chissà se potrò mai permetterlo…», dice sospirando. La vicenda del suo ragazzo, Antonio, è iniziata invece il 18 novembre scorso quando, disperato, decise di salire sul tetto di un palazzo con altri due colleghi per chiedere il rinnovo del contratto di lavoro. Da allora, la sua battaglia l’ha portato, con altri colleghi, ad occupare la Torre Aragonese di Porto Torres e sbarcare all’Asinara il 24 febbraio scorso. «La cosa più difficile è stato l’arrivo. Faceva freddo, pioveva. Eravamo soli, isolati da tutto. Ma l’affetto della famiglia, degli amici e la solidarietà ricevuta ci hanno dato grande forza». Così come l’amore della fidanzata. «La lontananza all’inizio mi spaventava. Poi mi sono fatta coraggio e spesso raggiungo Antonio qui nell’Isola. Per lottare insieme».



Quella di Piera è la stessa nostalgia che accompagna gli sguardi delle figlie di Emanuele, quando la sera di una domenica di metà aprile, salutano il papà e si imbarcano con la madre sulla Sara D, il traghetto che dall’Asinara le riporterà a Porto Torres. Con il viso del padre stampato sulla maglietta indossata vedono l’isoletta sparire in lontananza e aspettano di riabbracciarlo presto. «Voglio che vivano serenamente questo periodo di difficoltà. Anche loro però stanno soffrendo tanto. Sanno cosa significa essere in cassa integrazione e sentono la crisi», spiega Emanuele Manca, 35 anni, operaio della Vinyls da 15 anni. «Spero che il nostro caso si risolva al più presto, altrimenti 4450 persone resterebbero senza busta paga e tutta la comunità ne risentirebbe. Senza contare poi le grandi difficoltà che i giovani avrebbero nel trovare lavoro: qui il settore industriale è l’unico che dà occupazione». Ed è proprio per le giovani generazioni che, al di là della specificità di ogni vertenza, tutti i lavoratori sono uniti nella grande “vertenza Sardegna”. Un’isola che dà battaglia e grida a gran voce: “Chi lotta può anche perdere. Chi non lotta ha già perso”.



Fotografie e testo di Vincenzo Sassu

giovedì 13 maggio 2010

Al via il governo Cameron



Il neopremier conservatore forma il gabinetto. Oltre a Clegg vicepremier, il 38enne Osborne alle Finanze e l’euroscettico Huge agli Esteri. È la crisi economica il primo problema da affrontare

LONDRA. "Non chiederti cosa il tuo paese può fare per te, bensì quello che tu puoi fare per il tuo Paese". Il famoso slogan di Kennedy ora appartiene anche a David Cameron, che ha ricevuto dalla regina Elisabetta l’incarico di formare il nuovo governo, diventando il 52mo primo ministro della storia britannica e, con i suoi quarantatre anni, il più giovane dal 1812. Dopo giorni di trattative che avevano lasciato il Paese col fiato sospeso, l’aristocratico leader dei Conservatori ha infatti trovato un accordo con Nick Clegg dei Liberal Democratici per un esecutivo di coalizione. Seppur infatti i Tory avessero ottenuto più voti di tutti alle elezioni del 6 maggio scorso, non avevano raggiunto il numero di seggi sufficiente (326) per una maggioranza assoluta. E’ una svolta storica quella britannica. Non solo per la fine del mandato laburista durato tredici anni e sancito dalle dimissioni del primo ministro uscente Gordon Brown, 59 anni, ma perché l’ultimo governo di coalizione lo guidò Winston Churchill che, durante la seconda guerra mondiale, formò un governo con Tory, Laburisti e Liberali.



Tutto è ruotato attorno alla figura dell’outsider Nick Clegg, 43 anni, l’uomo che ha tenuto per giorni la Gran Bretagna sulle spine. Uscito sconfitto dalle elezioni con soli 57 seggi conquistati, è diventato fondamentale nel gioco di alleanze per la formazione di un maggioranza congiunta che desse stabilità al Paese. Consapevole dell’importanza acquisita dal suo partito, ha trattato sia con i Labour che in Tory, scegliendo alla fine il partito che gli offriva maggiori garanzie: i conservatori. Dato il fallimento dei negoziati tra Laburisti e Liberal Democratici, in un incontro con la stampa, davanti alla sua residenza di Downing Street, il premier uscente Gordon Brown, accompagnato dalla moglie Sarah, ha rassegnato le dimissioni e lasciato la leadership del partito, facendo gli auguri al suo successore. Secondo la Tv pubblica inglese, BBC, quello di Brown non sarebbe solo un addio all’incarico che ricopriva dal 2007 ma anche all’attività parlamentare e politica. Non si conoscono ancora i termini ufficiali dell’intesa raggiunta tra Tory e Lib-dem. Ma Clegg, che sarà vice premier, dovrebbe aver rinunciato alla richiesta di amnistia per i clandestini prevista dal suo programma e aver ottenuto dai Conservatori la possibilità di un referendum per un evoluzione in senso proporzionale dell’attuale sistema di voto, maggioritario uninominale secco, che penalizza i piccoli partiti. Nella nuova compagine governativa preparata da Cameron, i Lib-dem avranno quattro ministeri. Ai conservatori andrà il ruolo chiave di Cancelliere, il titolare dell’economia, destinato al giovanissimo (38 anni) George Osborne, e sicuramente il dicastero alla Difesa e alla Sanità, affidati rispettivamente a Liam Fox e Andrew Lisley. A far discutere invece è il nuovo ministro degli Esteri, William Huge, un euroscettico convinto che potrebbe minare le basi dell’alleanza con i Liberal Democratici, filo-europeisti per tradizione. Intanto si fanno le previsioni sulla durata del nuovo esecutivo. I bookmakers inglesi non gli danno più di anno.

martedì 11 maggio 2010

Clegg-Tory, quasi fatta


LONDRA. Nick Clegg. E’ lui l’uomo attorno a cui ruota il destino della Gran Bretagna. Uscito clamorosamente sconfitto dalle elezioni, nonostante nelle tre settimane precedenti al voto del 6 maggio alcuni sondaggi l’avessero dato addirittura come vincente, il leader centrista dei Liberal Democratici da tre giorni sta trattando con i Conservatori di David Cameron per la formazione di una maggioranza che dia stabilità al Paese. Secondo l’emittente inglese Sky, nelle ultime ore i due avrebbero steso una “bozza d’accordo”, che i vertici dei Tory e dei Lib-dem, impegnati nelle negoziazioni, dovranno proporre ai membri dei rispettivi partiti per l’approvazione. Non si conoscono ancora i termini del “patto” ma, nonostante le proteste dei propri elettori che hanno manifestato di non gradire un appoggio del loro partito ai Tory, per i Liberal Democratici questa potrebbe essere una grande occasione per realizzare uno dei punti chiave del proprio programma: la riforma del sistema elettorale, il maggioritario uninominale secco, che penalizza oltremodo i partiti minori. Un mancato accordo su questo aspetto, rischierebbe di “spaccare” il partito Liberal Democratico e mettere in seria difficoltà Nick Clegg davanti ai suoi sostenitori. Secondo alcuni giornali inglesi, proprio la riforma elettorale e la data delle prossime votazioni sarebbero state infatti tra le condizioni poste dagli esponenti del partito Lib-dem al loro leader per accettare un accordo con i Conservatori.



Se le indiscrezioni fossero confermate, la Gran Bretagna avrebbe finalmente un primo Ministro, David Cameron, e i Conservatori prenderebbero le redini del Paese dopo la lunga esperienza laburista durata tredici anni. Secondo la televisione pubblica inglese, BBC, la pista che porterebbe Clegg ad allearsi ai Laburisti di Gordon Brown, però sarebbe ancora aperta. Lo confermerebbe l’incontro tra il leader centrista e il primo Ministro uscente nel pomeriggio di domenica. Ad accomunare i due partiti ci sarebbe sicuramente la riforma del sistema elettorale attuale. Una priorità per i Liberal Democratici che i Labour sarebbero già pronti a concedere. Ad avvicinare le due formazioni i c’è anche una visione comune sul ruolo che la Gran Bretagna dovrà assumere nell’EU: entrambi i partiti sono filo-europesti e credono che far parte dell’Europa sia un vantaggio. Al momento l’ipotesi di un accordo tra Labour e Lib-dem non può essere ancora esclusa, ma appare più lontana. Anche perché, nella possibilità che i due partiti possano raggiungere un accordo, dovrebbero cercare il sostegno di altre formazioni politiche, come i partiti nazionalisti dell’Ulster, del Galles e lo Scottish National Party per avere la maggioranza assoluta dei seggi.Nonostante le grandi differenze di programma tra Conservatori e Liberal Democratici, in primis la questione della riforma elettorale e del ruolo della Gran Bretagna nell’Unione europea, e alcune altre difformità sui tagli alla spesa pubblica e le tasse, la sensazione è che l’accordo sia vicino e si stia discutendo sugli ultimi dettagli per dare un governo forte e stabile al Paese.



Testo di Vincenzo Sassu

domenica 9 maggio 2010

Cameron chiama Clegg


LONDRA. I sondaggi l’avevano previsto da tempo: Cameron vincente senza una maggioranza assoluta. E così è stato. Con il 36 per cento dei voti, i Conservatori sono riusciti ad avere la meglio sui Laburisti (29) e i Liberaldemocratici (23), ma non hanno comunque raggiunto la soglia dei 326 seggi necessari per formare una maggioranza autonoma. I Tory hanno infatti ottenuto 306 seggi, seguiti dai Laburisti del premier uscente Gordon Brown, 258, e dai Liberaldemorcratici di Nick Clegg, 57. A deludere è stato proprio leader centrista che tre settimane fa, dopo il primo dibattito televisivo, era stato dato addirittura come vincente. Dopo trentasei anni (era il 1974) i britannici eleggono un “hung parliement”, un parlamento in cui nessun partito ha raggiunto la maggioranza assoluta. Gordon Brown, mantiene così un incarico ad interim, fino alla formazione di un nuovo governo. E può tentare per primo di dar vita ad un esecutivo, di minoranza o coalizione, e sottoporlo poi al voto di fiducia nel dibattito di presentazione del programma del nuovo governo, il Queen’s speech. Ora, i Laburisti potrebbero tentare di trovare un accordo con i Liberaldemocratici di Clegg, che si è detto “molto deluso” dal risultato elettorale del suo partito. Se comunque Brown non riuscisse a trovare un appoggio per il suo gabinetto, sarà la regina Elisabetta II ad incaricare il partito in possesso della maggioranza relativa di formare un nuovo esecutivo. Lo stesso Clegg sarebbe d’accordo: “Qualunque partito prenda più voti ed ottenga più seggi ha il diritto di formare il governo”, commenta a caldo, aggiungendo polemicamente degli interrogativi: “Cameron governerà nell’interesse nazionale piuttosto che in quello del suo partito? Cercherà di mettere insieme un governo per la nazione e non uno che rivendichi un mandato che il partito Conservatore non ha?”.

Il giovane e aristocratico leader Conservatore, nella prima conferenza stampa post-elettorale, si dice pronto ad assumersi la responsabilità di guidare la Gran Bretagna: “Abbiamo avuto due milioni di voti in più dei laburisti. Non abbiamo raggiunto la maggioranza assoluta ma ci troviamo di fronte ad una crisi finanziaria e abbiamo bisogno di un esecutivo che dia garanzie ai mercati. Ora inizieremo i negoziati con gli altri partiti: un’idea sarebbe quella di dare rassicurazioni in determinati ambiti per avere un governo di maggioranza oppure portarne avanti uno di minoranza con lib-dem. In entrambi i programmi ci sono dei possibili punti di intesa”. Cameron sottolinea come il nuovo governo “debba affrontare al più presto la minaccia numero uno per il Paese: il deficit”, aggiunge che “con il voto di ieri, i cittadini hanno espresso la loro voglia di cambiare, di avere un nuovo leader”, e promette “un governo forte e stabile che agisca nell’interesse nazionale”. Nonostante non abbia ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, infatti quella dei Tory è stata comunque una vittoria importante. Non solo per i cinque punti percentuali guadagnati rispetto alle ultime elezioni del 2005, ma perché mette fine ad un’epoca: tredici anni di dominio assoluto laburista. Con Tony Blair prima e Gordon Brown poi. I laburisti però non si arrendono e, almeno dalle prime dichiarazioni, sono pronti a resistere e dare battaglia: “I risultati elettorali mostrano come nessun partito abbia raggiunto una chiara maggioranza. E da primo ministro ho il dovere di assicurare che la Gran Bretagna sia sostenuta da un governo forte e stabile”, dichiara il Premier britannico, appoggiato dal numero due, il ministro del Commercio, Peter Mandelson, e da Alan Johnson: “La volontà del popolo britannico è quella che nessun partito abbia la maggioranza assoluta, perciò dobbiamo comportarci da politici adulti e maturi”, sostiene il ministro dell’Interno che lancia anche un messaggio ai lib-dem: “Abbiamo molte cose in comune con loro”. Ora la palla passa nelle mani di Nick Clegg, il centrista corteggiato a destra e sinistra. L’outsider che potrebbe decidere il destino del Paese.

giovedì 6 maggio 2010

Elezioni: Cameron favorito, ma pesa l'incognita Clegg



LONDRA. David Cameron, Gordon Brown e Nick Clegg. Secondo l’ultimo sondaggio diffuso da YouGov, l’accreditato sito internet specializzato in ricerche di mercato, questo dovrebbe essere l’ordine d’arrivo della maratona elettorale inglese che oggi si conclude chiamando i votanti alle urne. Seppur con un margine notevole di incertezza i conservatori otterrebbero il 35 per cento delle preferenze, i Laburisti il 30 mentre i Liberal Democratici il 24. Al di là di vincitori e vinti quella britannica è stata una campagna elettorale innovativa. La prima della storia britannica in cui i candidati si sono confrontati in televisione. ITV, Sky, BBC sono stati i palcoscenici che hanno ospitato i tre dibatti all’”americana”, dove i leader dei più grandi partiti hanno parlato dei loro programmi in materia di politica, economia, immigrazione, riforma elettorale, salute, scuola, Europa. Per i sondaggi, a salire sul gradino più alto del podio, sarà David Cameron, 44 anni, che promette una “grande società” sul modello dei Kennedy. Da tempo dato come vincitore, il leader dei Conservatori è intenzionato a decentralizzare il potere, “dando ai cittadini le chiavi del governo”. Ha in programma un possibile aumento delle tasse ma punta al taglio della spesa pubblica per dodici miliardi di sterline. Vuole riportare il livello dell’immigrazione al 1990 e promette maggiori investimenti per il Servizio Sanitario Nazionale. Il suo obiettivo è quello di trasformare gli ospedali in fondazioni e far sì che i medici abbiano stipendi proporzionati ai risultati raggiunti. Euroscettico da sempre, il giovane leader dei conservatori, durante il secondo dibattito televisivo è stato chiaro: “Vogliamo restare in Europa ma non farci governare dall’Europa, vogliamo la sterlina e non l’euro”.

In questi mesi, il leader uscente Gordon Brown è apparso invece in netta difficoltà. Lui che come Cancelliere aveva animato gli anni del miracolo economico e chiamato a gestire da primo Ministro la crisi, è sembrato stanco, affaticato. Logorato da un potere che vede i laburisti al governo da 13 anni, afflitto da scandali, delusioni e gaffe. L’ultima l’ha coinvolto proprio qualche giorno fa, quando, dopo un collegamento con BBC radio 2, parlando con i suoi collaboratori (a microfoni aperti senza saperlo) aveva dato della “bigotta” alla pensionata del Rochdale, elettrice laburista delusa, che l’aveva appena incalzato con domande pungenti su economia e immigrazione. Filo-europeista, il leader laburista non intende entrare nell’euro, ma è convinto che per la Gran Bretagna sia vantaggioso far parte dell’Europa Unita. In materia economica, prevede pochi tagli alla spesa pubblica e un aumento delle tasse solo per i contribuenti che guadagnano più di centocinquantamila sterline all’anno. Il suo programma prevede un aumento degli investimenti per la scuola pubblica, la limitazione del flusso migratorio e una politica dura per contrastare la microcriminalità. Al di là del risultato finale, l’outsider Nick Clegg, esce comunque vincente dalla maratona elettorale. In poco più di due mesi è balzato nei sondaggi, passando dal 17 per cento del febbraio scorso al 24 attuale. Dopo il primo dibattito trasmesso sul piccolo schermo, in alcuni sondaggi, aveva addirittura superato i rivali. Il giovane leader centrista ha infatti sfruttato con abilità i benefici del palcoscenico televisivo, convincendo migliaia di elettori che pensavano di astenersi. Significativo il suo esordio nel primo incontro del 15 aprile scorso sulla rete commerciale ITV, quando si rivolse ai rivali dicendo: “Questi due vi diranno che l’unica possibilità è votare per uno dei due partiti che ci governano da tempo, ma esiste un’alternativa per creare una società più giusta e più equa. E siamo noi”.

Clegg ha le idee chiare. Vorrebbe tagliare la spesa pubblica per 15 miliardi all’anno, tre dei quali da investire nelle tecnologie verdi. Molto innovativa è anche la sua proposta per la scuola: rimpiazzare i centri statali con istituti gestiti da charity e da privati, supervisionati dalle autorità locali ma non dal governo. Grande europeista per tradizione, Clegg supporta l’euro ma non intende aderire, almeno per ora. E’ stato ribattezzato l’Obama bianco e, come il presidente americano, ha fatto della parola “cambiamento” il suo cavallo di battaglia. Di grande importanza è il suo programma di investimento nelle energie rinnovabili, come il vento, il sole e il mare: “Questa non è un’elezione come le altre, i climatologi dicono che il prossimo governo sarà l’ultimo che potrà fermare il pericoloso cambiamento climatico del pianeta”, ha detto nell’aprile scorso. Nonostante i sondaggi diano Cameron vincente, gli esiti elettorali potrebbero sorprendere: se anche i conservatori riuscissero a spuntarla è molto probabile che non riescano comunque ad ottenere la maggioranza assoluta dei seggi. Questo perché il sistema elettorale inglese, maggioritario uninominale, non è simmetrico tra numero di deputati eletti e voti ottenuti. Perciò, se un partito ha un elettorato ben distribuito potrebbe avere più seggi di un altro che ha conseguito più voti, ma dispersi in vari collegi. Per riuscire almeno a formare un governo di minoranza, i conservatori sperano così di ottenere una maggioranza relativa con il più alto numero di seggi. Altrimenti la prospettiva sarebbe quella di un governo di coalizione composto da Tory, Labour e Lib-dem. Come nel 1974. Un’esperienza che allora non durò a lungo.

mercoledì 14 aprile 2010

Fedeli adios


Gli esperti parlano di "cristianesimo residuale". La metà dei giovani si dichiara non credente e le chiese si svuotano. Anche di preti

MADRID. Al passaggio della moglie e della nipote, gli occhi acquosi di Rafael si inumidiscono. Sono grandi, di una particolare sfumatura di verde, e sembrano nuotare in un mare di emozioni al vederle sfilare davanti a lui. Sono da poco passate le undici quando la processione del Corpus Christi attraversa la piazza principale di Toledo e, Rafael, un uomo sulla sessantina, dai capelli bianchissimi e la pelle arrossata dal sole, è riuscito a farsi largo tra la gente. «Qualche anno fa, per essere in prima fila e riuscire a vedere la processione sarei dovuto arrivare almeno alle otto del mattino qui in piazza. Ma gli anni passano e le persone si allontanano dalla Chiesa». Le parole di Rafael si rincorrono affannate, seguendo i suoi umori che oscillano tra la gioia celebrativa della festa e il dispiacere per la perdita del suo valore sacrale ormai quasi sconosciuto ai giovani abitanti della città e di una nazione che sta progressivamente perdendo fedeli: più di due milioni negli ultimi quattro anni, secondo il vescovo emerito di Valencia, Rafael Sanus Adad. In Spagna il cattolicesimo sta vivendo una crisi profonda. Nel 1998 si dichiaravano cattolici l’83,5% di spagnoli. Nel 2008, secondo un sondaggio realizzato dal CIS, centro di inchieste sociologiche, la percentuale è scesa di 5 punti. Nel tempo, il numero di praticanti è diminuito ancor di più e si attesta a livelli inferiori al 20%. Quello che rimane attualmente è un “cattolicesimo sociale” o “cristianesimo culturale” non conforme ai principi evangelici. Una crisi che interessa non solo i fedeli ma anche i religiosi. «I sacerdoti sono meno numerosi e sempre più anziani», conferma il cardinale Antonio Maria Ruoco, presidente della CEE, la Conferenza episcopale spagnola, e arcivescovo di Madrid in un discorso pronunciato nel novembre scorso davanti alla Conferenza Episcopale, l’assemblea dei vescovi spagnoli.



Gli ultimi dati ufficiali risalenti al 2005 sono chiari: delle 23.286 parrocchie presenti in Spagna, 10.615 non hanno un sacerdote residente. Molti preti sono costretti così ad un vero e proprio tour de force per garantire, almeno la domenica e nei giorni festivi, le celebrazioni eucaristiche per le varie comunità. Secondo il quotidiano spagnolo El Pais, il caso più estremo è quello di un sacerdote quarantasettenne che, nella remota regione rurale della Cantabria, è responsabile di 22 parrocchie allo stesso tempo. Alla crisi di vocazioni, si aggiunge poi l’innalzamento dell’età media dei sacerdoti che ha raggiunto i 63,3 anni e, in alcune zone, i 72,04. Nel 1966 ad esempio la diocesi di Santander aveva 460 sacerdoti. Oggi sono la metà, contando i pensionati. C’erano 430 seminaristi, ne rimangono appena 11. Ci sono comuni come la remota Soria, nella comunità autonoma di Castiglia e Lèon, dove i seminaristi non ci sono proprio e altri centri come Lerida, cittadina nell’est della Catalogna, dove la Chiesa ha importato seminaristi dalle nazioni del Sud America di lingua spagnola per far fronte al considerevole calo.
Seduta su una panchina nell’elegante Plaza de Oriente di Madrid, Natalia osserva il figlio rincorrersi con gli amici. I capelli raccolti sulla nuca da una fascia celeste che le copre la fronte, la rendono giovane, solare. Di tanto in tanto, si alza, fa una passeggiata, sfoglia una rivista. Si considera cattolica, ma non praticante. Crede in Dio, ma fatica a capire la Chiesa come istituzione. «Il problema più grande è che la Chiesa non si adatta ai tempi moderni», racconta. «C’è una sorta di ossessione della gerarchia cattolica per il controllo delle norme morali. I dogmi, presentati come intoccabili, sono una barriera che le impedisce di essere parte del mondo attuale. Quando invece la Chiesa dovrebbe dialogare con tutta la società ed essere aperta al futuro, ai giovani». E sono proprio le giovani generazioni che il cattolicesimo non riesce a capire. Tant’è che, negli ultimi anni, proprio tra i ragazzi, la percentuale di non credenti è cresciuta maggiormente. Solo cinque anni fa era il 22% a definirsi ateo, ora è il 46%. E anche tra i ragazzi che hanno ricevuto un’educazione religiosa la percentuale di non credenti è del 50%. Di quelli che credono in Dio invece il 39% si dichiara cattolico non praticante e solo il 10% attende abitualmente alle funzioni eucaristiche. Ma il dato più significativo è che solo per il 3% di loro, la Chiesa ha un valore significativo nella loro vita.



È ormai da qualche giorno che Gullermo si apposta sulla staccionata durante la festa di San Firmino per seguire los encierros, la discesa sfrenata dei tori per la via principale di Pamplona. Più di un anno fa aveva scattato una foto quasi perfetta da quella postazione: tre fotografi distesi sul selciato a pancia in giù ad immortalare i tori in corsa. Anche quest’anno vuole provarci. Lo incontriamo mentre fruga nella borsa scegliendo l’obiettivo più adatto. Sembra un fotografo professionista, è invece un giovane seminarista. Che scatta fotografie per passione. «Ho scelto un percorso di vita diverso rispetto a quello di tanti miei coetanei. Parlo spesso con loro. Mi confronto su temi etici, politici, sociali. E volte faccio fatica a spiegare le mie posizioni. Il fatto che i valori cristiani possano convivere con la modernità. Anzi possano contribuire a darle valore, significato». Intanto la gerarchia ecclesiastica spagnola non perde occasione per denunciare l’operato del governo Zapatero. Due sono in particolare i provvedimenti a cui la Chiesa si oppone con rigidità: l’approvazione nel 2005 della legge che consente le unioni matrimoniali tra persone dello stesso sesso, permettendo loro di adottare figli, e la nuova normativa sull’aborto approvata dalla Camera nel dicembre scorso. Qualche anno fa la Spagna è stata la quarta nazione al mondo, dopo Olanda, Belgio e Canada, a legalizzare le unioni omosessuali. E rimane ancora l’unico paese cattolico ad averlo concesso. Fortemente osteggiata dalla Chiesa, la nuova legge, approvata nel febbraio scorso, che consente l’interruzione di gravidanza dà invece la possibilità di farlo fino al compimento della quattordicesima settimana. Secondo questa normativa, le ragazze minorenni (dai 16 anni) possono così abortire senza informare i genitori.



La situazione di difficoltà che vive il cattolicesimo in Spagna non può non tener conto delle religioni minoritarie che stanno modificando il panorama confessionale spagnolo. Oggigiorno, i protestanti contano 2.200 congregazioni e 1,2 milioni di fedeli evangelici, secondo la Federation Entidades Religiosas Evangelicas de Espana (FEREDE). Ad aumentare in particolare è stato il numero di islamici. La percentuale di spagnoli convertitisi all’Islam non è alta ma influiscono i molti migranti di fede musulmana arrivati in Spagna negli ultimi anni. Le organizzazioni islamiche parlano di mezzo milione di persone, che aumentano di anno in anno. Anche le altre comunità sono in crescita E tutte vorrebbero beneficiare degli stessi finanziamenti statali di cui beneficia la religione cattolica in termini di finanziamenti statali.
«Oggi gli spagnoli sono religiosi per tradizione o totalmente indifferenti alla sfera sacra», sostiene Rafael Diaz Salazar, insegnante di sociologia dell’università Complutense di Madrid. «Rimane una religione popolare che si manifesta in feste o riti che mantengono ancora intatta la loro importanza. Tra i riti, il matrimonio religioso è tuttora molto praticato. Secondo le ultime statistiche del 2002, le unioni civili rappresentano solo il 26,64% di 209.065 matrimoni». Per Salazar, quello che ora si vive in Spagna è una transizione che vede lo “spostamento della centralità della religione” alla periferia degli interessi dei cittadini. I sociologi spagnoli parlano di “cristianesimo residuale”. Una tendenza che contrasta con le celebrazioni della Settimana Santa; basti pensare che, una delle più grandi manifestazioni spagnole, la processione del Venerdì Santo di Siviglia accoglie fedeli da ogni parte d’Europa e del Mondo. Quella Andalusa però è un tipo di religiosità particolare: se le celebrazioni attorno ai simboli religiosi sono numerose e molto seguite, è invece limitato il numero di pratiche religiose ortodosse.



Nell’autobus per Granada, il paesaggio prende colore, si sfuma, si accende seguendo i ritmi frenetici del cielo. Margarita guarda ammirata oltre il finestrino. È un’anziana insegnante in pensione in viaggio verso la città dell’Alhambra, la perla della Spagna, dove la figlia lavora ormai da qualche anno. Ha in mano un rosario e un libro di preghiere che recita a bassa voce. «La religiosità Andalusa è lontana dall’ideologia religiosa dominante, dal suo aspetto istituzionale, rappresentato dalla Chiesa, e si costituisce di una serie di credenze, pratiche e rituali che formano parte della nostra cultura. La nostra è una religiosità popolare legata ad una dimensione spirituale personale che diventa poi condivisa nelle cerimonie pubbliche. Lontana dai precetti e dalle imposizioni del Vaticano». Anche nei luoghi sacri della Spagna, come la città di Santiago del Compostela meta storica dei pellegrinaggi europei, che, con il suo cammino, indica la rotta spirituale occidentale, la religiosità sembra sia diventata quasi un elemento culturale, legato alla tradizione, più che alla fede. «Negli ultimi tempi si è perso lo spirito che animava questo posto, visitato in ogni periodo dell’anno. Sono spesso stranieri, gite organizzate di anziani, in particolare portoghesi, che vengono qui. Ma i grandi gruppi di giovani, quelli che lo rendevano così speciale, ormai sono diventate delle sparute comitive», racconta un vecchio panettiere di Santiago, che di fedeli nella sua vita ne ha visti passare a milioni. Ha gli stessi occhi, la stessa espressione di Julia, una casalinga di Madrid che, tornando a casa dopo la processione di San Isidro, racconta di invocare il Santo per assistere il cattolicesimo in Spagna. «Una religione che sta morendo», dice a bassa voce.



Fotografie e testo di Vincenzo Sassu

giovedì 25 marzo 2010

Alluminio come piombo


Continua la battaglia degli operai dell'Alcoa di Portovesme, area del Sulcis iglesiente, tra le più povere della Sardegna. Ora, Tutto è nelle mani di Bruxelles che sta valutando il decreto legge sulle agevolazioni energetiche preparato dal Governo. Ma c’è il timore che in futuro la multinazionale americana lasci comunque l’Italia per paesi dove l’energia costa meno e la produzione è maggiore. Per questo i sindacati chiedono garanzie.

Ai caschi blu dell’Alcoa di Portovesme non resta che invocare “Nostra Signora de sa cosa ‘e pappai”, la Madonna del cibo, in attesa che il 22 febbraio prossimo, la multinazionale americana dell’alluminio decida definitivamente di revocare la decisione di chiudere gli stabilimenti sardi del Sulcis e quelli veneti di Fusina. L’ultimo vertice tra governo, azienda e sindacati si è chiuso infatti con un rinvio concordato tra le parti. Si aspettano nuove prospettive, ma gli impianti industriali non si fermano, almeno fino a quella data. La lotta degli operai non è finita quindi. Perché il piccolo centro di Portoscuso, vicino ad Iglesias, di cui fa parte l’area industriale di Portovesme, vive il dramma di chi ha perso o sta perdendo il posto di lavoro e del futuro incerto di una zona dell’isola che ha sempre vissuto del lavoro dei suoi minatori prima e dei suoi operai ora.

In questo centro abitato, che porta addirittura le ciminiere nel suo stemma, si sta sgretolando il sogno di una Sardegna industriale al riparo dalla crisi. Solo nel polo industriale di Portovesme ci sono in ballo circa 5000 buste paga, la metà sono già entrate nel limbo della cassa integrazione, lavoratori che chiedono di uscirne al più presto. E stanno battagliando, proprio come negli ultimi mesi, hanno fatto gli operai Alcoa, la multinazionale produttrice di alluminio, bloccando l’aeroporto di Cagliari e la Carlo Felice, la principale arteria stradale sarda. L’hanno fatto bruciando copertoni, gridando “Non molleremo mai”, sbattendo ritmicamente i caschi sull’asfalto così come davanti a Montecitorio, o guidando il corteo dei 50 mila scesi in piazza nel capoluogo sardo per il lavoro il 6 febbraio scorso. Hanno manifestato con vigore, chiedendo “lavoro e rispetto” e trasportando piccole bare, con il casco deposto, per celebrare il funerale industriale. Sono arrivati perfino al carnevale di Venezia gli operai dell’Alcoa, improvvisando uno streaptease simbolico di un futuro che potrebbe spogliarli di un diritto fondamentale, quello su cui si fonda la Repubblica italiana: il diritto al lavoro e di uno stipendio indispensabile per sfamare la famiglia, far studiare i figli, continuare a vivere con dignità.



«I nostri genitori hanno fatto lotte e battaglie e noi siamo qui anche per loro», gridano gli operai che manifestano in Piazza Colonna a Roma. «Ho una famiglia, dei figli piccoli, tre femmine e un maschietto. Se perdessi il lavoro sarebbe una disperazione», racconta un lavoratore veneto dell’Alcoa di Fusina. Tra gli operai del Sulcis c’è anche chi è costretto ad emigrare per mantenere la famiglia: «Non possiamo vivere senza stipendio. Ora a 48 anni devo chiedere un aiuto finanziario a mia madre. Ho una figlia a Roma che studia all’università ma, questa settimana, dovrà rientrare perché non riusciamo più a pagarle le spese. Mi sento umiliato come persona, e penso addirittura di andare a lavorare all’estero. Qui non ci sono prospettive e, alla mia età, sono costretto ad andare via. Non è possibile andare avanti così: vivo male e faccio vivere male anche la mia famiglia».

Hanno conquistato le prime pagine di giornali e la ribalta televisiva i lavoratori di Portovesme, così come diciotto anni fa, fecero i minatori della Carbonsulcis, nella miniera di Nuraxi Figus, che, con il passamontagna in testa, si barricarono per un mese in gallerie scavate nelle viscere della terra, toccando quota meno 400 metri. «Forse non basta venire qui, forse stiamo perdendo tempo. Ma non abbiamo alternative, dobbiamo farci sentire, dobbiamo gridare il nostro volere. Se ci fermiamo, siamo perduti. Non possiamo mollare, la fabbrica deve rimanere aperta», hanno gridato i lavoratori davanti al Parlamento, perché i posti di lavoro a rischio sono tanti: 450 a Porto Maghera, 500 a Portovesme e altri 500 all’indotto. Ad allontanare per il momento lo spettro della cassa integrazione, ci sono le 7 mila tonnellate di allumina arrivate in nave dalla Spagna. Dovrebbero assicurare autonomia fino al 22 febbraio, giorno in cui Alcoa, al termine dell’incontro con governo e sindacati, comunicherà la decisione di abbandonare o meno gli stabilimenti italiani. Ora, le è stato chiesto di non chiudere le fabbriche finché Bruxelles non si pronuncerà sul decreto legge che prevede agevolazioni energetiche nelle aree considerate svantaggiate: Sicilia e Sardegna. Tutto dipenderà quindi dalla decisione che, a breve, prenderà la Commissione europea. Fonti UE rivelano che le misure contenute nel testo legislativo potrebbero essere considerate come aiuti illegittimi.



Per rimanere in Italia, la multinazionale di Pittsbough, 63 mila dipendenti in 31 paesi del mondo, avrebbe infatti richiesto al governo un intervento regolatorio sulle tariffe energetiche, giudicate troppe alte, maggiori rispetto alla media europea. L’alluminio viene infatti prodotto tramite particolari processi elettronici, che richiedono elevati consumi di energia elettrica (circa 15-16 kWh per ogni kg prodotto). Allo stato attuale, per ogni tonnellata di prodotto, il costo della corrente incide così più dell’alluminio e dei costi di personale. In un comunicato diffuso nel novembre scorso, Alcoa precisa che la sospensione della produzione era stata decisa per le “incertezze sulla fornitura di elettricità, per i suoi forni di fusione a tariffe competitive e per l’impatto finanziario della decisione della Comunità europea”. Bruxelles infatti chiede alla multinazionale americana le sovvenzioni avute dal 2006 sui prezzi dell’elettricità in Italia, sostenendo che si tratti appunto di aiuti pubblici illegali.

Per capire il caso Alcoa bisogna però tornare indietro nel tempo, al 1995, quando per l’impianto sulcitano produttore di alluminio finisce l’era delle partecipazioni statali e le agevolazioni di Stato fino ad allora concesse non sono più permesse dall’Europa. In quell’anno, la società stipula con Enel, il fornitore di elettricità italiano, un contratto che le assicura tariffe fisse per dieci anni. All’epoca la Commissione autorizza l’operazione perché la considera come manovra commerciale ordinaria conclusa alle condizioni di mercato. Ma, nel 2006, alla scadenza del contratto, Bruxelles apre una procedura di infrazione che vuole l’abolizione delle tariffe elettriche speciali. I vertici di Alcoa lasciano allora intendere che una decisione del genere potrebbe costringerli anche a lasciare l’Italia. Per risolvere la questione ed evitare la chiusura degli stabilimenti, viene allora adottato una sorta di escamotage: l’azienda, continua a beneficiare di tariffe privilegiate secondo un diverso dispositivo: acquista la sua elettricità dall'Enel come in precedenza, ma è lo Stato italiano a rimborsale la differenza con la tariffa storica. E questo la Commissione lo considera come "un aiuto pubblico illegale". Perciò, ora Bruxelles chiede ad Alcoa le sovvenzioni avute dal 2006 in poi. Una cifra che, secondo fonti sindacali, ammonterebbe a circa 270 mila euro.

L’impatto finanziario di questa decisione e l’alto costo dell’energia nel nostro paese potrebbero portare Alcoa a lasciare l’Italia. Per convincerla a non farlo però il governo ha preparato un decreto legislativo, tuttora al vaglio della Commissione, che prevede tariffe energetiche vantaggiose per Sicilia e Sardegna considerate aree svantaggiate. La questione è spinosa: per rimanere in Italia gli statunitensi vorrebbero pagare l’energia sotto i 30 kWh, Enel invece non sembra disposta a scendere al di sotto dei 40. Solo un accordo tra le due società potrebbe quindi scongiurare l’intervento dell’Unione europea che non sembra disposta ad accettare sconti energetici concessi sotto forma di “aiuti di Stato”. «Nel nostro territorio vivono circa 150 mila persone e la disoccupazione è pari al 30 per cento. Se dovesse chiudere lo stabilimento di Portovesme, non sarebbe possibile trovare un’altra occupazione, perché non ci sono offerte di lavoro. Per noi queste industrie rappresentano l’unica fonte di economia», dichiara preoccupato Massimo Cara, sindacalista della Cisl delle Rsu Alcoa, la rappresentanza sindacale unitaria della multinazionale americana.



In un comunicato diffuso qualche giorno fa, le organizzazioni sindacali Fim, Fiom, Uilm, unitamente a Cgil, Cisl e Uil hanno proposto ad Alcoa di non interrompere la produzione nello stabilimento sardo e in quello veneto di Fusina, dichiarano comunque di voler salvare la produzione di alluminio in Italia e pretendono programmi e un piano industriali che diano certezze per il futuro. Oppure chiedono al Governo e alle Regioni, anche attraverso il commissariamento e una gestione straordinaria, la continuità dell’attività produttiva sotto un’altra gestione.
Il timore è infatti che nei prossimi anni Alcoa lasci l’Italia e altre nazioni europee come la Spagna, attirata da investimenti in altre zone, come il Medio Oriente. Proprio nel dicembre scorso infatti il colosso americano dell’alluminio ha annunciato di aver raggiunto con il gruppo minerario Ma’aden un accordo per la costituzione di una joint venture dell’alluminio. Un investimento complessivo da 10,8 miliardi di dollari. Al momento, la maggiore produzione di alluminio avviene negli Stati che dispongono di grandi quantità di energia a basso costo, come nel Canada (maggiore produttore al mondo) e in quelli del nord Europa, tra cui Norvegia e Islanda dove gli impianti di produzione hanno in genere delle centrali idroelettriche dedicate. L’Italia è invece la prima produttrice in Europa di alluminio riciclato, prodotto ottenuto dal recupero di lattine e altri rifiuti di alluminio. Un processo che richiede una quantità di energia elettrica molto inferiore rispetto alla produzione primaria. «E’ molto interessante che in Italia ci si impegni per la raccolta e il riciclaggio di alluminio, anche se è impensabile soddisfare l’intero fabbisogno nazionale unicamente col riciclaggio. L’ideale sarebbe adottare sia l’una che l’altra opzione. Il core business di Alcoa è comunque sull’alluminio primario», commenta Vittorio Bardi, coordinatore nazionale Fiom del gruppo Alcoa. La multinazionale americana attualmente produce infatti il 18% dell’alluminio utilizzato in Italia, circa 200 mila tonnellate all’anno di un mercato in continua espansione. La paura che nel futuro Alcoa abbandoni comunque il nostro paese è grande, perciò i sindacati chiedono garanzie anche per i prossimi anni. L’Italia è infatti il maggiore consumatore di alluminio in Europa.

Oggi, la vertenza ruota attorno al costo dell’energia. Una questione che, secondo Claudio Scajola, risolverebbe tornando al nucleare. In tal caso, dice il ministro dello Sviluppo economico, il prezzo dei megawatt si abbasserebbe di una trentina d’euro. Gli operai di Portovesme però non ci stanno: «Il ritorno al nucleare non è la soluzione al problema. Qui, abbiamo altre fonti di energia che potrebbero aiutarci a risolvere il problema, ad esempio il carbone del Sulcis che viene utilizzato in Germania a costi molto bassi. Oltretutto, per costruire una centrale nucleare ci vorrebbero almeno dieci. E nel frattempo, noi che faremo?». Una domanda legittima nel Sulcis, in questa zona della Sardegna, tra le più povere dell’isola, dove ci si batte per conservare il lavoro o si rischia la fame.



Testo di Vincenzo Sassu

domenica 14 marzo 2010

Resistenza chimica


Tra gli operai della Vinyls di Porto Torres che avevano occupato la Torre aragonese della città, prima di spostarsi nell'isola dell'Asinara per far conoscere all'Italia intera la difficile condizione di precarietà sociale e lavorativa che vivono da mesi. Ora Eni e Ramco, società del Qatar, hanno raggiunto un accordo di massima per acquistare l'azienda. Ma le delusioni del passato sono troppe.

«Sono finiti i tempi in cui la petrolchimica sembrava una città, con tutte quei puntini luminosi. Ora, le luci si stanno spegnendo pian piano. E sulla nostra vita è calato il buio». Gli operai chimici della Vinyls Italia di Porto Torres, in cassa integrazione da mesi, ricordano così il loro stabilimento, illuminato, vivo. Una fabbrica che, nei tempi d’oro, dava lavoro a 20mila persone e arrivava a produrre 60mila tonnellate di Cvm-Pvc all’anno. Immagine che rimane impressa nei loro sguardi sognanti mentre la osservano in lontananza e la vedono deserta, smarrita, senza luce. Questo nonostante l’accordo di massima appena raggiunto tra Eni e Ramco, società del Qatar, interessata a rilevare l’intero ciclo del Pvc. Un accordo su cui si gioca il futuro della chimica in Italia, così come il loro destino. Ma la situazione resta incandescente e gli operai rimangono cauti sull’esito finale della trattativa. Da troppi mesi vivono l’esaltazione di accordi che poi falliscono, di patti non rispettati. E finché gli impianti non riprenderanno a lavorare, continueranno la loro protesta. Perché la loro fabbrica, la più grande del territorio, che garantiva un reddito a migliaia di famiglie, oggi appare come una fotografia sbiadita, dall’alto della Torre Aragonese, davanti al porto della città, dove sono accampati ormai da più di un mese. Per farsi sentire, 138 operai della Vinyls hanno infatti scelto di occupare un baluardo costruito nel 1325 dall’ammiraglio Caroz, che aveva raggiunto Porto Torres con la flotta aragonese. L’hanno fatto per chiedere la riapertura degli impianti del petrolchimico e giurano di non abbandonarlo finché non riprenderanno a lavorare, a sfamare una famiglia che ha smesso di fare progetti e credere nel futuro. Perché mancano i soldi per le necessità quotidiane, per vivere con dignità, da quando la loro fabbrica ha chiuso i battenti.



Ufficialmente è dal luglio 2009 che gli operai sono in cassa integrazione, ma lo stabilimento lavorava a singhiozzo già nei sette mesi precedenti. Avrebbe dovuto riprendere l’attività il 15 dicembre scorso, ma gli impianti di produzione della filiera del cloro sono ancora chiusi, a causa del blocco delle forniture di materie prime, come etilene e dicloretano, da parte dell’Eni e, da allora, i dipendenti della Vinyls di Porto Torres sono senza lavoro. Così come quelli Porto Marghera che, fino ad ora, hanno atteso invano il riavvio degli impianti. Eppure, sembrava che la situazione per l’ex azienda chimica di Fiorenzo Sartor, attualmente in amministrazione straordinaria, si fosse risolta con l’accordo del 12 novembre 2009, quando il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, aveva annunciato, in una nota, che il caso Vinyls-Eni si sarebbe concluso con un lieto fine. All’epoca, l’Eni si era infatti impegnata a fornire tutte le materie prime necessarie a far ripartire gli impianti dell’azienda specializzata in Pvc, attiva a Porto Torres, Porto Marghera e Ravenna: 470 addetti di cui 137 solo in Sardegna. Questo, sperando che la società, entro il 15 dicembre, ottenesse le fideiussioni necessarie dagli istituti di credito. Cosa che, di fatto, non è accaduta. Le banche infatti, vista l’azienda in stato di amministrazione straordinaria, si sono rifiutate di concederle. Fideiussioni che poi erano state comunque deliberate, fino a un massimo di 20 milioni di euro, dalla Regione, attraverso l’ultima finanziaria, la Sfirs. Un finanziamento però soggetto al parere della Commissione europea che, ancora non si è pronunciata, facendo quindi precipitare la situazione. Dopo l’incontro del 22 febbraio scorso tra Eni e Ramco, la situazione però sembra cambiata. Il Cane a sei zampe finalmente pare infatti intenzionato a rispettare l'accordo siglato il 12 novembre 2009 per la fornitura a Vinyls dei servizi e delle materie prime (etilene e dicloretano) al prezzo concordato, che attualmente è inferiore ai prezzi di mercato. Eni e Ramco avrebbero poi raggiunto anche un accordo di massima sul trasferimento di asset dell'Eni a Ramco ad Assemini, in Sardegna, a Marghera, nel Veneto e a Cirò Marina, in Calabria, per ricomporre il ciclo produttivo della filiera del cloro, che sarà discusso con le autorità locali e con i sindacati. Allo stesso tempo Ramco dovrebbe prendere contatto con i commissari di Vinyls per concordare i passi successivi. «Rimaniamo molto cauti sugli esiti concreti dell’accordo, perché, fino ad ora, i patti non sono mai stati rispettati. Quindi, finché gli impianti non ripartiranno concretamente non molleremo», dichiara a caldo Pierfranco Delogu, segretario dei chimici della Cgil.



Come i sindacati anche gli operai di Porto Torres attendono gli sviluppi concreti degli accordi, perché il baratro della cassa integrazione su cui sono sprofondati da mesi sta logorando centinaia di famiglie della zona. «Non posso continuare a vivere così, senza un lavoro. Ho due figlie di 3 e 5 anni, avevo un mutuo che ora ho dovuto sospendere. E le prospettive sono nere», racconta Roberto Carta, 33 anni, capellino rosso acceso e un sorriso limpido a mascherare una situazione che non riuscirà a sostenere a lungo, con una moglie senza lavoro e due figlie piccole da crescere. «Il nostro dramma è anche quello di Porto Torres, di famiglie assistite dai servizi sociali e di altre costrette a chiedere alla Caritas il cibo per poter mangiare», interviene Pier Gianni con la consapevolezza di chi vede morire ogni giorno la sua città, ma non si arrende. E dà battaglia, finché avrà la forza di farlo. Quello che si vive in questi giorni è un momento cruciale per il futuro della chimica italiana, un’industria che rappresenta, nel nostro Paese, una risorsa importante sia per gli insediamenti produttivi presenti in varie Regioni (i più importanti a Porto Marghera, Ferrara, Mantova, Ravenna, Assemini, Porto Torres) sia sul piano occupazionale e commerciale. Un settore produttivo, quello chimico, fortemente integrato tra i diversi impianti che costituiscono un unico assetto di filiera. Al giorno d’oggi, Porto Marghera con circa 2000 dipendenti diretti e circa 1500 occupati nell'indotto, rappresenta il cardine di tale integrazione. Secondo l’ultima edizione dello studio Plastic trend synthesis pubblicato dalla società di consulenza milanese Plastic Consult con la fermata degli impianti di Pvc di Porto Torres e Porto Marghera la produzione nazionale è diminuita e l’import di termoplastiche, come polistirene, Pvc e tecnopolimere, è aumentata notevolmente, coprendo, l’anno scorso, quasi il 75% della termoplastiche in Italia. La ricerca rivela inoltre come, negli ultimi due anni, le vendite di termoplastiche vergini nel nostro Paese siano crollate di quasi un milione di tonnellate, fermandosi a fine 2009 a quota 6 milioni.



Quella dei cloro derivati, è infatti una produzione strategica per l’intero compatto chimico nazionale, un settore in cui, per lungo tempo, il polo di Porto Torres è stato all’avanguardia. Questo grazie alla professionalità degli operai impiegati: «Sono tutti molti qualificati, tanti di loro sono anche laureati. Il problema è politico, volendo la situazione si risolve. Anche perché, se questo non accadesse, saremmo tagliati fuori dal mercato europeo dove la concorrenza è grande. In Francia, Inghilterra, Germania e Svizzera ci sono infatti impianti simili a quello di Porto Torres che producono Pvc. Materiale essenziale che noi dovremmo importare in quantità sempre più massicce», dichiara Giuseppe Suffritti, direttore del Dipartimento di Chimica dell’Università di Sassari. Perché anche il mondo accademico isolano sta sostenendo con vigore la battaglia degli operai della Vinyls. Così come alcuni sindaci della zona che minacciano le dimissioni se la situazione non venisse risolta, e gli studenti della città che invece sperano di trovare un’occupazione nell’area industriale. C’è anche la Chiesa della zona a dar man forte, con don Mario Tanca della parrocchia di San Gavino, simbolo di Porto Torres, e monsignor Atzei, che durante la fiaccolata a sostegno dei lavoratori, organizzata in città il 26 gennaio scorso, ha pronunciato parole chiare: «Un vescovo, pur non facendo politica, non può fare finta di niente di fronte a quanto sta accadendo. È doveroso chiedere alla Regione e ai parlamentari sardi di far sentire la voce del territorio. Mi ha colpito molto che non si siano fatti vedere. Io non sono contro di loro. Ma sto con i lavoratori».

La solidarietà è giunta anche da lontano, dai dipendenti di un caseificio di Thiesi, un piccolo paese della provincia di Sassari. Domenica scorsa, sono arrivati in furgoncino con sacchi di pasta, casse d’acqua, cartoni di latte, scatole di pelati, formaggio. Beni di prima necessità per aiutare le famiglie degli operai che, senza stipendio e, con i soldi dei pochi risparmi ormai agli sgoccioli, vivono il difficoltà di non poter condividere con mogli e figli quel momento di incontro, attorno ad un pasto caldo, che vale più di qualunque altra cosa. Ad accoglierli nella Torre Aragonese, c’erano giovani operai e anziani, con 37 anni di lavoro in fabbrica alle spalle. Uomini che presidiano la torre giorno e notte ormai. «Qui dormiamo», dicono, indicando alcuni materassi sul pavimento. Attorno ci sono anche due tavoli dove, gli operai organizzano ogni iniziativa. Appesi al muro, ritagli di giornali locali: articoli che raccontano la loro storie. Come quella di Tino Tellini, operaio della Vinyls ed ex assessore all’Industria del Comune: «Questo dei lavoratori di Thiesi è stato un gesto di solidarietà significativo, tra i più belli che sia mai stato fatto per noi. La nostra è una battaglia per il territorio e per il futuro della chimica nel nostro Paese. Se dovessimo cadere, con noi precipiterebbe tutto lo stabilimento. Oltre la disperazione, gli ammortizzatori sociali e l’assistenzialismo non ci sono alternative». Così come per Omar Sall, ambulante senegalese di Dakar, da tre anni a Porto Torres. Perché se gli operai non riprendono a lavorare anche la sua merce continuerà a rimanere lì, disposta sul tappetino disteso per strada. Invenduta. Per chissà quanto tempo ancora.



Fotografie e testo di Vincenzo Sassu

giovedì 4 febbraio 2010

Libertà di Stampa: il caso italiano


Intervista a Jean-François Julliard, Segretario Generale dell’associazione Reporters sans Frontières sulla situazione della libertà di stampa in Italia.

Perché alcune grandi democrazie europee non garantiscono appieno la libertà di stampa?

Le ragioni principali sono due. Innanzitutto, la presenza in Europa di gruppi terroristici o malavitosi che minacciano i giornalisti quando questi ne denunciano le attività criminali. Mi riferisco alla Mafia in Italia, all’ETA in Spagna, ai gruppi paramilitari dell’Irlanda del Nord o alle gang e alle organizzazioni criminali bulgare. La seconda ragione è legata al potere, che costituisce una minaccia pesante per la libertà di stampa in alcuni Paesi, dove dirigenti politici di primo piano tentano di influenzare l’operato dei media. È il caso ad esempio di Sarkozy in Francia e Berlusconi in Italia.

Si riferisce al conflitto di interessi del Premier italiano?

Esattamente. La sua figura è una grande minaccia per la libertà di stampa. Non è accettabile che il Primio ministro di un Paese democratico possieda la più grande azienda privata mediatica e possa poi influenzare quella pubblica. Oltretutto, è una persona che non tollera la critica, gradendo unicamente i media che lo “corteggiano”, parlando bene di lui e della sua politica. È da anni ormai che denunciamo la situazione, ma né a livello italiano né europeo è stato fatto qualcosa per cambiare.

Come valuta in generale il caso dell'Italia?

Inquietante. Spesso i giornalisti italiani sono vittime di pressioni politiche, economiche criminali e minacciati dalle mafie. È preoccupante che in un Paese membro dell’Unione Europea, come l’Italia, alcuni giornalisti debbano essere protetti dalle forze dell’ordine per esercitare il proprio mestiere. Non è normale. L’Italia non è un paese in guerra. Non è l’Iraq, né l’Afghanistan.

Ma è davvero così negativa la situazione?

Bisogna restare davvero molto vigili anche se, fortunatamente, ci sono testate che hanno la capacità di resistere alle pressioni a cui sono sottoposte. Ci sono giornalisti che mantengono la schiena dritta e la propria indipendenza. È ammirabile il coraggio di tutti quei professionisti che in Italia, nonostante le minacce, le pressioni, continuano a fare il loro mestiere. Parlo di Roberto Saviano, Lirio Abbate, Rosaria Capacchione e di tanti altri che mettono quotidianamente a rischio la propria vita per informare i cittadini.

Testo di Vincenzo Sassu

sabato 23 gennaio 2010

"Reporters sans Frontières": i paladini della libertà di stampa nel mondo


PARIGI.“Senza una stampa libera nessuna lotta democratica può essere conosciuta, capita, sostenuta”. Il messaggio è universale e viaggia dall’Africa al Medio Oriente, dall’Europa all’America, sostenuto da Reporters sans Frontières, l’organizzazione internazionale nata a Parigi nel 1985 che difende la libertà di stampa nel mondo. Perché negli ultimi cinque anni più di 340 professionisti dei media hanno perso la vita mentre lavoravano per informarci. E, al giorno d’oggi, più di 130 giornalisti sono imprigionati semplicemente per aver esercitato il loro mestiere, per aver avuto il coraggio di raccontare, nonostante i rischi, le minacce, le intimidazioni. A Cuba, in Eritrea o in Cina, un giornalista può trascorrere mesi e mesi in galera per un articolo, per una foto. Per questo, da ventiquattro anni ormai, RSF denuncia i “predatori della libertà di stampa”, quegli uomini che imbavagliano la stampa oppure ordinano ai loro subordinati di farlo. In genere sono responsabili politici di alto livello, capi di governo, ministri, monarchi, ma anche gruppi armati o cartelli della droga, mafie locali. Gente che ha il potere di censurare, rapire, torturare e nel peggiore dei casi uccidere i giornalisti, senza rendere conto dei gravi attentati alla libertà d’espressione di cui sono colpevoli. E questa impunità è uno dei pericoli più grandi che i reporter sono costretti a fronteggiare.



Nel 2008 sono 39 a portare questo titolo. Fidel Castro è sparito perché ha lasciato il suo posto al fratello Raul, lo stesso vale per l’ex presidente del Pakistan Pervez Musharraf. Nella nuova lista sono però entrate Hamas, le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania e quelle israeliane che attaccano costantemente i reporter che documentano le loro incursioni nei territori palestinesi. Ci sono poi il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, quello siriano Bashar al-Asad, i gruppi islamisti armati dell’Afghanistan, dell’Iraq e del Pakistan, i cartelli della droga messicani, il presidente della repubblica popolare cinese Hu Jintao, quello della Federazione Russa, Dimitri Medvedev e del primo ministro Putin, l’Ayatollah Khomeini, l’organizzazione terroristica basca dell’ETA, le mafie e le organizzazioni criminali italiane. Anche nello Sri Lanka, in Corea del Nord, in Somalia, Eritrea e in vari stati dell’Africa i nemici della libertà stampa sono numerosi.

Assassini, reclusioni, minacce di morte, rapimenti, punizioni economiche: i metodi adottati sono tanti. Il barometro 2009 della libertà di stampa parla chiaro: 35 giornalisti uccisi, 176 reporter e 10 collaboratori arrestati, 93 cyberdissidenti imprigionati. Professionisti che non hanno mai smesso di osservare l’Altro, sguardi che spesso si sono caricati di rabbia e tristezza per un’inspiegabile crudeltà. L’equipe di Reporters sans Frontières li sostiene, offrendo loro assistenza attraverso il dispositivo SOS Presse: componendo un numero di telefono, in qualunque momento, un responsabile dell’associazione, fornisce loro dei contatti, allertando le autorità locali e consolari o agendo secondo quanto la situazione richiede. L’attenzione dell’organizzazione è focalizzata in particolare sui giornalisti freelance che rischiano la vita per raccontare i conflitti che insanguinano il pianeta. Qualora vengano feriti, uccisi o presi in ostaggi, gli inviati di RSF sparsi nel mondo si mettono all’opera, conducendo delle inchieste personali per far luce sulle dinamica degli eventi ed individuare i responsabili. Perché anche in tempo di guerra, l’impunità deve essere combattuta con vigore. Proprio come ha cercato di fare Déo Namumjumbo, un giornalista freelance congolese, corrispondente di Reporters sans Frontières, dell’agenzia di stampa InfoSud/Suisse e del magazine femminile Amina.



Con i suoi articoli, Déo denunciava le ingiustizie, i soprusi subiti dalla popolazione locali e dai bambini costretti ad arruolarsi per combattere le guerre di regime. Temeva per la sorte dei suoi familiari, aveva paura. Finché un giorno non uccisero suo fratello minore, Didace. Sconvolto dal dolore, con coraggio nel novembre 2008, Déo inizia un’inchiesta per far luce sul caso, individuare i responsabili e spingere le autorità a processarli. Gli elementi raccolti e le continue minacce telefoniche, portarono all’arresto di una decina di persone. «Ma da quel momento in poi, la mia vita cambiò», racconta. «Non avevo più una vita normale. Venivo minacciato costantemente ed ero costretto a viaggiare a Uivira, Walungu e Goma, in Ruanda, dove trascorrevo molti giorni in hotel, sotto falsa identità. Questo per non essere visto a Bukavu (ndr città della Repubblica democratica del Congo) dove vive la mia famiglia. Spesso dovevo rimanere in casa finché i miei figli non si coricavano, poi andavo a dormire da amici o cugini e rientravo a casa per le cinque del mattino, prima che i bambini si svegliassero, con la paura che si accorgessero di tutto e ne rimanessero traumatizzati». Dopo aver ricevuto nel 2009 la Plume D’Or, il premio mondiale assegnato ogni anno per la libertà di stampa dalla WAN, la World Association of Newspapers”, Déo ora vive a Parigi, alla Maison des Journalistes (l’associazione francese che accoglie i giornalisti di tutto il mondo vittime di minacce, torture e persecuzioni nei loro Paesi); qualche mese fa ha ottenuto lo status di rifugiato politico in Francia e attualmente gli otto figli e la moglie vivono sotto la protezione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.



Nel mese di ottobre, Reporters sans Frontières ha pubblicato la nuova classifica della libertà di stampa nel mondo. Il rapporto nasce grazie alle risposte fornite da centinaia di giornalisti ed esperti di quasi tutto il mondo al questionario preparato da RSF. E tiene conto delle violazioni alla libertà di stampa tra il primo settembre 2008 e il 31 agosto 2009. Sono più di 50 i criteri che hanno contribuito alla redazione del rapporto. Ci sono le aggressioni, gli arresti e le intimidazioni subite dai giornalisti, le minacce indirette, le pressioni e l’accesso all’informazione, la censura e l’auto-censura, lo stato dei media pubblici, le pressioni amministrative, giudiziarie ed economiche, la situazione di Internet e dei nuovi media, il numero di giornalisti assassinati, arrestati, aggrediti, minacciati e la responsabilità dello Stato in questi atti. «La libertà di stampa deve essere difesa in tutto il mondo, con la stessa forza e la stessa esigenza», ha commentato il segretario generale di RSF, Jean-François Julliard.



Il rapporto dice l’Europa è esemplare in termini di libertà di stampa. I primi posti sono infatti occupati da nazioni europee. La classifica è guidata dalla Danimarca, seguono poi Finlandia, Irlanda, Norvegia, Svezia, Estonia, Paesi Bassi e così via. L’Italia perde cinque posizioni rispetto al 2008 e si colloca al quarantanovesimo posto, dietro Paesi come la Giamaica, il Sudafrica, il Ghana, il Costa Rica, la Lituania e la Bosnia-Erzegovina. «La cosa più inquietante – commenta Julliard – è che grandi democrazie europee come la Francia, l’Italia o la Slovacchia, continuino anno dopo anno, a perdere posti nella classifica. L’Europa deve essere esemplare nel garantire le libertà pubbliche. Altrimenti com’è possibile denunciare le violazioni nel mondo, attuandole nel proprio territorio?». Il cosiddetto “effetto Obama” ha permesso agli Stati Uniti di scalare la classifica, sono al ventesimo posto e guadagnano 16 posizioni rispetto all’anno passato. Nei gradini più bassi, a preoccupare è invece la situazione dell’Iran, il Paese si avvicina infatti al “trio infernale” per la libertà di stampa, costituito ormai da anni dall’Eritrea, dalla Corea del Nord e dal Turkmenistan. Luoghi dove i giornalisti vengono minacciati. Dove qualunque voce non allineata ai regimi che governano, viene bandita, soffocata. Sono voci che spaventano, perché le parole non appartengono solo a chi le pronuncia. Ma a coloro che le ascoltano. E le ascolteranno. Le parole corrono, non si possono fermare. Perché, come scrive Roberto Saviano, pensando a Orhan Pamuk, Salman Rushdie, Anna Politkovskaja e tanti altri giornalisti e scrittori nel mondo, la potenza della parola, la sua forza letteraria, “sta proprio nella sua fruibilità, che la rende in grado di andare oltre ogni limite, di andare nel tempo quotidiano di chiunque, divenendo strumento ingovernabile e capace di forzare ogni maglia possibile”.



Testi e fotografie di Vincenzo Sassu