venerdì 7 gennaio 2011

La bolla celtica



Quartieri fantasma con case invendute, famiglie indebitate, disoccupazione. L'Irlanda fa i conti con la crisi dopo il boom degli anni Novanta mentre il governo vara una dura politica di austerity.

DUBLINO. “Welcome to the hell”. La scritta campeggia sulla parete di un immenso scheletro di cemento, un parallelepipedo di cinquanta metri di altezza per trenta di lunghezza, che sovrasta la strada più trafficata di Stillorgan, zona residenziale a venti minuti di tram dal centro di Dublino. È proprio camminando per Stillorgan e per gli altri quartieri fantasma della capitale irlandese, fatti di case costruite e rimaste invendute o mai terminate, che si percepisce l’esatta proporzione di quanto sta vivendo l’Irlanda, tra gli stati europei più colpiti dalla crisi economica, assieme a Portogallo, Grecia e Spagna.

Dopo essere stata tra le nazioni più povere del continente, in un decennio, era arrivata a raggiungere il secondo reddito pro-capite più alto d’Europa. Un boom, quello degli anni Novanta, che le valse il soprannome di “Tigre Celtica” per la crescita economica simile alle “tigri asiatiche”. In quel periodo, precedente alla crisi scoppiata nel 2008, l’Irlanda attraeva investimenti stranieri, soprattutto americani, sedotti da una politica fiscale molto comprensiva (un prelievo del 10%, ora il 12, rispetto al 35 degli Stati Uniti) e lasciava che i suoi abitanti si indebitassero fino all’inverosimile: «È stato un periodo incredibile dove pensavamo che tutto fosse possibile. Noi, che per anni siamo stati tra i paesi più poveri d’Europa e per questo costretti spesso ad emigrare per lavoro, abbiamo scoperto il benessere e vissuto come non eravamo abituati a fare. Ma, pensandoci a posteriori, era normale che non potesse durare. E le conseguenze di quella “sbornia” le stiamo pagando ora», racconta Philip, gestore di una tavola calda nella zona di Stillorgan. È l’ora di pranzo e la sala è quasi vuota. «Un tempo lavoravo fino a pomeriggio inoltrato servendo una portata dopo l’altra» racconta, ricordando i fasti di un passato non troppo lontano, prima di osservare con tristezza la desolazione dei tavoli ancora immacolati e le pietanze ormai fredde disposte nel bancone, «a metterci in crisi sono state le tante imprese che hanno lasciato la zona ma anche altri quartieri città. Passeggiando per il centro di Dublino non si vedono che cartelli con la scritta “To Let”, affittasi, appesi davanti ai palazzi. Impensabile fino a due anni fa dov’era difficile perfino trovare una stanza da prendere in locazione».



Stillorgan rappresenta uno di quei quartieri che hanno beneficiato dei soldi facili dell’ultimo decennio investiti in appartamenti ed uffici. Un boom che ha interessato tutto il Paese ma soprattutto Dublino se si pensa che negli anni 2000 venivano costruite circa 90-95 mila abitazioni l’anno, rispetto al livello fisiologico stimato sulle 30-40 mila unità. Lavori finanziati praticamente a costo zero dalle banche, dissanguate poi dalla crisi del mercato immobiliare che ha visto crollare i prezzi del 45%. Una situazione che ha portato l’Irlanda del liberismo sfrenato ad un deficit del 32%. Che il primo ministro, Brian Cowen, del partito di governo centrista Fianna Fail ha recentemente promesso di riportare alla soglia del 3% entro il 2014. Ma l’impresa sarà ardua e anche i più ottimisti vedono la ripresa più lontana, nonostante i primi mesi del 2010 abbiano visto l’Irlanda uscire dalla recessione con una crescita del Pil del 2,7% nel primo trimestre. «Sono convinto che presto il Paese si risolleverà», dice Valerio Potì, economista italiano, insegnante alla City Dublin University. Viene da Lecce, laureato alla Bocconi di Milano e nel suo curriculum vanta esperienze come ricercatore in Austria, Irlanda del Nord e Stati Uniti. Da anni vive in Irlanda e conosce bene il Paese, lo spirito dei suoi abitanti. Perciò è convinto che se «i tassi rimanessero bassi e il dollaro debole», l’Irlanda presto si riprenderà. Al momento però la situazione che attraversa l’isola è molto difficile: il debito collettivo di famiglie e imprese è a quota 888 miliardi, quasi il triplo rispetto alla media europea, il tasso di disoccupazione è salito dal 4,6% al 14% e tutti i salari sono stai tagliati del 10%. Oggi lo stipendi medio è di 10-12 euro all’ora (lordo) e la paga minima è di 8 euro (lordo). «Sono sposato, ho tre figli, e da mesi non trovo un lavoro», racconta Ted che, prima di essere licenziato, lavorava in uno dei migliori hotel della Capitale. Ora riceve un sussidio di disoccupazione, recentemente ridotto dal governo, ma riesce a campare la famiglia con difficoltà. Mentre parliamo in O’Connell Street, davanti a Pennies, tra i negozi più economici della Capitale, spesso guarda le figlie, Stephany e Tessa, di sei e quattro anni, accarezzando loro i capelli. «Ci stiamo privando anche dei beni essenziali pur di risparmiare qualcosa e non far mancare niente alle bambine. Io intanto sto cercando di trovare un’occupazione anche in altri settori, ma il mercato al momento è bloccato».



Come Ted ci sono altri 500 mila disoccupati in Irlanda che rispetto ad una popolazione di 4,2 milioni di persone hanno il loro peso. Persone sfiduciate che non credono nei governanti e nelle istituzioni che rappresentano. «Il governo ancora non ha fatto niente per stimolare la crescita economica, ha cercato di ridurre il prima possibile il deficit e salvare le banche che, con la loro condotta scellerata, ci hanno portato alla condizione in cui stiamo», dice un ex professore di filosofia in pensione, intervenendo ad un incontro organizzato a Dublino dal Worker’s Party of Ireland.

Il mancato stimolo alla crescita economica pesa come un macigno su un governo che per tenere a galla l’economia nazionale e salvare le banche ha disposto una rigida politica di austerity con un aumento delle tasse ai cittadini, il taglio delle spese pubbliche e di tutti gli stipendi del 10%. Quest’anno le entrate fiscali toccheranno quota 32 miliardi di euro, ma il governo ne spenderà 50 per salvare le tre banche più importanti, l’Anglo Irish Bank, l’Aib e la Bank of Ireland, così in tanti si chiedono dove verranno trovate le risorse per finanziare il settore scolastico, quello sanitario e statale. Il ministro delle Finanze, Brian Lenihan, intanto ha cancellato le aste dei titoli di stato e sostenuto che il debito è coperto fino al 2011, ma la gente non si fida e teme che il denaro pubblico venga utilizzato unicamente per salvare gli istituti bancari. Secondo i sondaggi l’83% dei 4,3 milioni di irlandesi non ha fiducia nel piano impostato dal governo. Ed ora anche da Bruxelles, che pure aveva salutato positivamente la politica dei tagli disposta dal governo irlandese per ridurre il debito, arriva un duro colpo. Ad assestarlo è il commissario europeo agli Affari monetari, Olli Rehn, che chiede di cancellare la mini-aliquota del 12,5% sui profitti di ogni tipo di impresa. Un privilegio fiscale che ha incoraggiato gli investimenti stranieri, dai quali è dipesa in gran parte la crescita dell’Irlanda e su cui si punta anche per la ripresa. Per rimettersi in sesto l’Irlanda farà infatti appello a chi non è stato toccato dalla crisi: le circa 800 multinazionali presenti nel Paese, tra cui Intel, Microsoft a Google. Proprio il motore di ricerca americano ha il suo quartier generale europeo a Dublino e da lì ha lanciato la sua sfida a Facebook con tecnologie messe a punto nella capitale irlandese.



Gli analisti indicano proprio il campo delle telecomunicazioni come uno dei settori in cui investire per il futuro dell’Irlanda, che dovrebbe anche riscoprire antiche e moderne vacazioni come l’agricoltura, le biotecnologie, i servizi finanziari e puntare sulle esportazioni, già a quota 13 miliardi di euro, che costituiscono più del 50% del prodotto interno lordo nazionale, una percentuale maggiore di quella tedesca. Secondo il quotidiano finanziario americano Wall Street Journal la ripresa economica dell’isola potrebbe arrivare anche dall’indebolimento dell’euro. L’Irlanda rispetto agli altri stati europei infatti esporta gran parte della propria produzione chimica, tecnologica e alimentare in Stati Uniti e Gran Bretagna. Questo permette di massimizzare i benefici della flessione della moneta unica europea che, dall’inizio dell’anno, ha perso circa il 15% contro il dollaro e l’8% contro la sterlina. Oltre al quadro incoraggiante delle esportazioni, a far ben sperare ci sono anche il crollo dei prezzi e dei salari che stanno stimolando le aziende straniere ad investire in Irlanda.

Ma se il Paese vuole uscire dalla crisi, deve fare appello alla sua gioventù, una delle più istruite d’Europa, ma anche tra le più pessimiste riguardo al futuro: il 70% ritiene che il peggio debba ancora venire. Ragazzi sfiduciati quelli irlandesi, proprio come Simon, un ventiseienne laureato in Economia, dottorando di ricerca all’ultimo anno. «Mio padre ha perso il lavoro. Era un insegnante di inglese in una scuola per stranieri. Riesco a portare avanti gli studi grazie ai risparmi messi da parte e alle borse di studio. Ma ho già deciso che, non appena concluderò il dottorato, andrò in cerca di lavoro in Canada o in Australia, aree appena sfiorate dalla crisi. Ho già preso contatti con delle aziende del posto e non appena ho la certezza di un’assunzione faccio il biglietto e parto». E come lui hanno la valigia pronta anche tanti altri giovani disposti a lasciare il propria terra per andare in cerca di fortuna all’estero. Almeno finché la “Tigre celtica” non tornerà a ruggire.



Fotografie e testi di Vincenzo Sassu