sabato 26 dicembre 2009

Deserta la spiaggia


Era deserta la spiaggia. Un enorme lenzuolo di sabbia che il vento si divertiva a lanciare per aria, scuotere nell’atmosfera, mescolare e distribuire in maniera casuale. All’apparenza. E quei granelli sembravano pioggia, sconosciuti cicloni d’acqua nell’Oceano. Di una violenza dolce, perché sconosciuta. Inascoltata perché priva di danni. Solo un fermento d’acqua. Di pesci piacevolmente sballottati a centinaia di metri di distanza. Come antichi ricordi.

Così quelle particelle infinitesimali di sabbia che lo avvolgevano come un lenzuolo. Come un letto sfatto. Illuminato dai primi bagliori di luce, sgattaiolati furtivi tra le persiane, per rinvigorire l’atmosfera dei colori giovani, aspri del mattino.

Ma i suoi occhi di meraviglia erano solo per lui: il Mare. Lo vedeva sconvolgersi, agitarsi, fare le capriole. Lo osservava alzarsi, contorcersi su se stesso, allungarsi piano fino a sfiorargli i piedi, diventando bianco. Canuto. Nasceva vigoroso e col tempo invecchiava. Imbiancandosi di schiuma.

Se ne stava lì sul bagnasciuga. Su quello spazio che non era terra, non era mare. In quell’angolo dove vivi per un attimo, dove le orme spariscono in un battibaleno e cancellano ogni traccia della tua presenza. In quella distesa dove l’uomo viene perennemente battuto dall’acqua. Dove qualunque cosa faccia è livellata dal Mare, che rende tutto uniforme e cancella ogni traccia. Come una vita vissuta in un attimo, in un battito di ciglio.

E cantava il vento. Parlava di terre lontanissime, sconosciute. Odorava di deserto, di miraggi, di pozzi sognati. Di vite tribolate. Di ricchezza violenta e povertà silenziosa. Di sfarzi dorati e baracche d’argilla. Di centri luminosi e periferie buie. D’Africa.

Quell’aria aveva attraversato il mare, percorrendo chilometri e chilometri, sorvolando villaggi, paesi, città. Capanne di fango, palazzi d'argento e case di campagna. Ed ora sussurrava nelle sue orecchie qualcosa di sconosciuto. Ed erano bisbigli di vite passate, di generazioni vissute e pensieri sospesi.

Quelli maturi e vecchi della sera.


Fotografia della spiaggia di Porto Ferro (Alghero) e testi di Vincenzo Sassu

martedì 15 dicembre 2009

Un gelataio in un giorno d'inverno


Sembrava un catino di panna montata che un vecchio gelataio avesse spalmato, divertito, in quella distesa azzurra. Lui la osservava e lei cambiava forma. Si allungava e si compattava. Per poi distendersi ancora, sfilacciandosi. Disintegrandosi in una marea di stelle filanti aggrappate lassù, sospese. E mentre si gustava lo spettacolo, sorrideva, quel matto gelataio che un giorno d’inverno, senza clienti, si era messo in testa di addolcire il cielo.


Testi e foto di Vincenzo Sassu

venerdì 27 novembre 2009

Il Coraggio di raccontare


Questo reportage racconta l’attività della “Maison des Journalistes”, l’associazione francese che dal 2000 accoglie i giornalisti vittime di torture e persecuzioni fuggiti dai loro paesi d’origine. Nella sua sede a Parigi ho incontrato reporter sviliti dal passato, nostalgici di famiglie e affetti lasciati a casa, di fughe tristi, provanti. Ho ascoltato le parole di chi ha sacrificato la vita per gli altri, denunciando i soprusi e le angherie subite dai loro popoli, soffocati dal gioco del potere. Uomini e donne che hanno raccontato le brutture dei loro governanti, le ingiustizie di esistenze vissute a metà, trascorse nel timore della violenza, in Paesi dove la libertà di stampa è solo un miraggio. Giornalisti che hanno lavorato con passione. E con una missione nel cuore: dare voce a chi non ce l’ha.

PARIGI. Bagnata dalla luce autunnale, la scultura di Anna Politikoskaja con il viso raccolto tra le mani e lo sguardo perso nel vuoto, assorto, è il gioiello di casa, della “Maison des Journalistes”, l’associazione che dal 2000 accoglie i giornalisti che richiedono asilo politico in Francia. É l’opera che attrae gli sguardi di prima mattina, rasserena gli animi di giornate stanche e ridefinisce i sogni ormai sfocati di cronisti lontani dalle famiglie, dai propri affetti, dalle gioie della quotidianità. Come un pennello, li disegna ancora una volta, dandogli i colori vivi della speranza. Di una vita nuova a Parigi, all’ombra della Tour Eiffel o chissà dove. Ma lontani dal proprio Paese che hanno lasciato d’improvviso per salvare la vita. Viaggi lunghi, notti insonni e giornate strazianti, con il cuore in gola per la paura di essere inseguiti, picchiati o uccisi. Hanno lasciato l’Afghanistan, l’Algeria, il Cameroun, Haiti, il Congo, il Togo, la Turchia e tante altre nazioni. Dove non potevano più parlare, scrivere o mangiare. Vivere. Persone coraggiose che hanno scelto di essere giornalisti in una terra che non li accettava, sfidando gli uomini di potere che volevano reprimerli perché con coraggio informavano sulle brutture dei governanti o di chi li sosteneva.



Peregrinazioni tormentate le loro, prima di arrivare a Parigi, al numero 35 di rue Cauchy ed unirsi alla grande famiglia di reporter costretti a fuggire per aver sostenuto la nobile causa della libertà di stampa. Ad accoglierli, l’anima di due giornalisti, il loro coraggio, la speranza che infondono e lo sguardo che rasserenano: Danièle Ohayon e Philippe Spineau, i fondatori della “Maison des Journalistes”, che dal 2002 ha dato ospitalità a 172 reporter di varie nazionalità, 30 ogni anno. «Sono persone che hanno un grande bisogno di parlare, di confidarsi, di raccontare le esperienze tragiche vissute. Hanno voglia di condividere. Di iniziare una nuova vita. Qui alla “Maison” ricevono sostegno, consigli e un luogo per riflettere», racconta Danièle Ohayon nel suo studio, impreziosito di foto e ricordi di vignettisti, reporter di carta stampata, radio e televisione che negli anni sono passati da quella stanza. Per avere un letto, un piatto caldo, un ideale in cui credere ancora, una speranza. Uomini e donne con molti anni di esperienza professionale alle spalle. Che spesso avevano assunto incarichi importanti all’interno delle loro redazioni. E per questo hanno lasciato sulla scrivania inchieste, reportage, interviste. Articoli che avrebbero potuto contribuire a cambiare le sorti della nazione. A rendere consapevoli afgani, congolesi, cubani, turchi, cinesi e tanti altri popoli del giogo che li soffocava, delle minacce che ne frantumavano il respiro.



Alla “Maison des Journalistes” i giornalisti possono trattenersi al massimo sei mesi, il tempo medio necessario per ottenere lo status di rifugiato politico. Durante questo periodo di attesa, la legge non li autorizza a lavorare, perciò nella nuova residenza iniziano a studiare il francese, scrivono per il trimestrale dell’associazione e cercano di rifarsi una vita. «Purtroppo solo una minima percentuale continua a fare il reporter qui in Francia. Ed è un vero peccato, perché per i media francesi sarebbe davvero interessante lavorare con giornalisti rifugiati, magari proventi dalle ex colonie. In genere, i più giovani riprendono a studiare, la maggior parte si improvvisa nei mestieri più disparati: autista, ristoratore, informatico, guida museale, operaio. Mi vengono in mente le parole di un giornalista, rifugiato politico, che ora lavora in una delle radio più importanti francesi: “Cercavo lavoro, volevo continuare a fare il giornalista. Ma quando andai all’ufficio di collocamento mi risposero che per me c’era solo un posto di addetto alla sicurezza. E io risposi: “Ma come, io dovrei proteggere i francesi? In realtà, pensavo che foste voi a dover proteggere me!”. Un’altra bella storia è quella di un cronista del Senegal che, dopo aver ottenuto l’asilo politico, frequentò una delle migliori scuole di giornalismo in Francia. Nessuno però volle assumerlo come giornalista. In mancanza di un lavoro, si rimboccò le maniche e, per sopravvivere, iniziò a lavorare in una lavanderia. Di cui poi divenne il responsabile. Nel frattempo creò un giornale gratuito per la comunità africana in Francia. E iniziò a lavorare nella pubblicità. Questi sono solo degli esempi, ma col tempo si moltiplicheranno. Sono persone in gamba, che ripartano da zero dopo aver rischiato la vita per gli altri. Siamo davvero molto orgogliosi di accoglierli e dare loro la possibilità di una nuova vita». Usciti dal suo studio, visitiamo l’edificio. Ci lasciamo risucchiare dal silenzio che si sposa con i bagliori tenui del pomeriggio autunnale per regalare agli oggetti, ai muri, alle stanze un’aura di pace, di tranquillità. La “Maison des Journalistes”, proprio come dice il suo nome, è una vera e propria casa disposta su tre piani, un mondo in cui tutto sembra scorrere lento. La cucina, la sala lavanderia, la sala TV e la sala lettura sono universi lontani anni luce dalle tribolazioni patite dai giornalisti prima della fuga, dalle torture subite. Da quel pensiero ricorrente: “Meglio morire, per soffrire così”. Appese sulla porta di ogni stanza, le targhette di Canard Enchainé, RFI, Canal Plus e dei media francesi che, insieme al Fondo Europeo per i Rifugiati sostengono la “Maison”, coprendo le spese di funzionamento.



Mentre scivoliamo lentamente lungo i corridoi, arriviamo in un piccola sala dove due reporter lavorano alla versione elettronica dell’“Oeil de l’exilé”, l’occhio dell’esiliato, un magazine trimestrale che permette ai residenti di praticare la professione e comprendere i meccanismi della stampa francese. A darci il benvenuto, il sorriso di Jean Jacques Jarel, un giornalista del Gabon, arrivato alla “Maison” nel mese di agosto. É il suo compleanno. Ha gli occhi acquosi della commozione, come due grandi paludi. «Sono laureato in filosofia, ma non ho mai insegnato. Ero giovanissimo quando diventai giornalista. Avevo appena 19 anni e durante la mia ventennale carriera ho lavorato nella stampa, nella radio e nella televisione del mio Paese».
Osservandolo mentre parla, il suo viso cambia, sembra una tela, dove le parole dipingono l’espressione entusiasta degli inizi, del primo articolo, del primo servizio radiofonico. Poi, dopo l’impeto iniziale, quello dei ricordi giovanili, dei colori vivi, il suo sorriso si spegne e la tela si tinge di grigio, delle sfumature cupe della fuga, di quella telefonata, di quella voce: “Scappa, ti stanno cercando”. «Era la mattina di qualche mese fa e avevo appena trasmesso la notizia della malattia che aveva colpito il nostro presidente, costringendolo ad un ricovero ospedaliero a Barcellona. A voi, potrebbe sembrar strano, il vostro è un Paese democratico. Ma in Gabon e in tante altre nazioni diffondere notizie come queste porta alla prigione, alla tortura. Per il popolo, il presidente deve rappresentare la perfezione, il “Dio in Terra”. Non è lecito conoscere le sue condizioni di salute, i suoi problemi, le sue difficoltà. E se qualcuno prova ad informarne, allora scatta la persecuzione. Ero consapevole che diffondendo una notizia del genere avrei rischiato molto. Ma l’ho fatto per informare i miei connazionali. Perché quello era il mio dovere. Da noi, i diritti umani non esistono, la libertà di stampa è solo un miraggio. E se vuoi fare il giornalista e non rischiare la vita, devi accarezzare la pelle del potere».



In Francia, Jacques vorrebbe continuare a lavorare come reporter: «Sono consapevole che qui sarà molto difficile, il mercato dei media è chiuso. Perciò, almeno inizialmente, cercherò di trovare un lavoro che mi permetta di nutrire la famiglia e vivere. Non amo l’assistenzialismo. Il mio piano è chiaro: riprendere gli studi e conseguire una laurea nella mia nuova Patria, perché qui un titolo “made in Africa” ha poco valore». Il pensiero delle figlie, della moglie, della sua terra lo accompagna. E gli dà coraggio. La voglia di integrarsi nella società francese lo stimola. Lo entusiasma. Proprio come Ali Muhaqiq Nasab, un reporter afgano, anch’egli residente nella “Maison”. Spingendo la porta della sua stanza, i suoi occhi appaiono rilassati, la sua espressione distesa. É un uomo di mezz’età, dal viso bonario. Sembra smanioso di mostrarci il suo computer, dove gira un CD che traduce alcune frasi idiomatiche dalla lingua farsi, la sua, a quella francese, del Paese che lo accoglie. “Ero caporedattore del mensile di Kabul Haqoq-e-Zan (Women’s Rights) e denunciavo i soprusi e le angherie subite dalle donne. Per questo nel marzo 2008 sono stato arrestato vicino a Teheran. Poi qualcuno entrò in casa e sequestrò i miei documenti, il telefono e il mio computer». Già nel 2005, Ali fu fermato in Afghanistan e detenuto per due anni con l’accusa di aver pubblicato degli articoli contro la religione islamica. Scriveva di donne, si batteva per i loro diritti, quest’uomo di mezz’età, dagli occhi profondi. E come Jacques lo faceva con passione. Con spirito critico. Denunciando la difficile condizione dei loro popoli. Quella che i governanti volevano celare per conservare il potere. Perché Ali, Jacques come anche tanti altri giornalisti nel mondo non accarezzavano il potere, non lo corteggiavano per compiacerlo. Ma ne denunciavano le irregolarità, gli affari sporchi, i soprusi, le ingiustizie. Semplicemente con la parola. E una missione nel cuore: dare voce a chi non ce l’ha.



Fotografie e testi di Vincenzo Sassu

lunedì 23 novembre 2009

Cielo


Un’immensa distesa d’azzurro. Le rotte fumose degli aerei la solcano di bianco. Di fumi disordinati che si aprono, si allungano, si intrecciano e svaniscono dissolti dal vento. Ha il colore del mare, delle sue sfumature, dei suoi impeti. Quei vapori sono come leggere increspature schiumose. E fanno infinite capriole prima di perdersi nei lidi del mondo. Che da lassù, sembrano briciole, vite che si agitano a rilento.

domenica 18 ottobre 2009

Nobel, we can



Il riconoscimento per la pace ad Obama. Ecco le reazioni per le strade di New York. Tra la gente comune, gli umori e le speranze di un Paese che vuole ritrovarsi.

NEW YORK. Quando la radio gracchia la notizia del giorno, il taxi 738 mette la freccia, svolta a destra e si accosta al marciapiede. Marc abbassa il finestrino ed alza il volume. “Hi man, have you hard the news?”, hai sentito la notizia, dice rivolgendosi ad un venditore di hot dog sulla 45ma strada. Lui fa cenno di no. “Barack Obama ha ottenuto il Premio Nobel per la Pace”, ripete enfatizzando la frase, dandogli vigore per sovrastare il traffico assordante sulla Fifth Avenue di New York, il viale più importante ed esclusivo della città. “Really? I can’t believe it!”, Davvero? Non ci posso credere, risponde l’altro, aggrottando le sopracciglia in senso di stupore.
Questa è la fotografia istantanea della reazione degli americani alla notizia del Nobel per la Pace a Barack Obama, piombata come un fulmine a ciel sereno di primo mattino anche alla Casa Bianca. L’incredulità dei cittadini è pari a quella del diretto interessato: “Sono sorpreso, onorato e profondamente commosso. Lo accetto con profonda umiltà ma non sono sicuro di meritarlo”, ha commentato a caldo il primo presidente afroamericano della storia statunitense, il quarto ad aver ottenuto il prestigioso riconoscimento dopo Roosevelt, Wilson e Carter.



Sembra un venerdì qualunque, il 9 ottobre 2009. L’atmosfera che si respira nella Grande Mela è quella di una giornata normale. I clacson suonano ad intermittenza scandendo il ritmo intenso della mattina. Sono appena passate le 9:30 e la gente corre negli uffici camminando a passo svelto, con una mano sorregge l’ombrello con l’altra la borsa. Sugli ampi marciapiedi il viavai è frenetico. E’ una giostra di colori, una varietà di espressioni, un’esibizione di abiti: sfilano tailleur d’alta moda, giacche e cravatte italiane, t-shirt, jeans, All stars e scarpe a tacco alto. Il cielo grigio sovrasta i grattacieli di Manhattan, adombrandone le ampie vetrate su cui gli enormi parallelepipedi si riflettono vicendevolmente, specchiandosi.



Sedute sui gradini dalle New York Public Library, due signore afroamericane sulla quarantina, parlano tra loro con vivacità. Sono amiche. Tra loro c’è grande complicità. Si somigliano molto. La montatura spessa degli occhiali che portano le accomuna, una miriade di treccine raccolte sulla nuca le rende simili. “Se sono d’accordo con il Nobel per la Pace ad Obama?”, si chiede in tono dubbioso. Poi alza gli occhi al cielo, come per trovare le parole giuste e risponde, guardando l’amica negli occhi e sfiorandosi il nasco con un tocco delicato della mano: “E’ difficile capire perché abbia vinto questo premio. Penso perché al giorno d’oggi è una delle poche persone che sta realmente provando a cambiare gli status prestabiliti. Che sta facendo dei passi in avanti in termini di integrazione, di lotta al razzismo, di unione e comprensione fra le diversità”.



A pochi passi dalle donne, un signore distinto, in giacca e cravatta che gioca con l’Ipod. Di tanto in tanto, osserva la gente intorno, sembra che aspetti qualcuno. E’ americano, di origine giapponese, lavora come broker e vive nella Grande Mela da vent’anni ormai. “Non penso che il premio assegnato ad Obama sia giusto – esordisce in maniera perentoria – Fino ad ora non ha fatto abbastanza per la pace nel mondo: l’offensiva americana in Afghanistan lo dimostra. Poi c’è la prigione di Guantanamo che dovrebbe essere chiusa a breve. Ma al giorno d’oggi purtroppo è ancora attiva. Siamo stanchi di guerre coloniali, di prigioni, di torture. Obama ha ottimi propositi. Ora aspettiamo che li metta in atto. Almeno dal punto di vista internazionale”. In rapido calo di popolarità, in difficoltà sulla riforma del sistema sanitario, ostacolata dai repubblicani e da una parte dei democratici, Barack Obama accoglie il Nobel per la Pace come una vera e propria boccata d’ossigeno. Così come lo zoccolo duro dei suoi sostenitori, ancora fermamente convinti che sia la persona giusta al momento giusto. Quella capace di risollevare gli Stati Uniti dalla profonda crisi economica e ridefinirne l’immagine nel mondo, svilita dall’era Bush.



Harlem, il quartiere afroamericano di New York, è un tributo ad Obama: t-shirt, borse, felpe, piattini esibiscono il suo viso. C’è lui che danza con Michelle nella notte dell’investitura presidenziale; che sorride alzando gli occhi al cielo; che parla davanti ad una folla oceanica. Poi, proprio davanti all’Apollo Theater sulla 25ª strada, una fotomontaggio, lo ritrae insieme ai leader dei movimenti per i diritti degli afroamericani e dei diritti umani in genere, Malcom X e Martin Luter King, entrambi morti assassinati negli anni ’60. “Obama ha tanto in comune con entrambi non solo in colore della pelle”, racconta Jack mentre risale Broadway street con il suo enorme fuoristrada. E’ un ragazzo sui ventincinque anni, alto e robusto. Indossa una felpa larghissima e un berretto dei Giants, la squadra di baseball più famosa degli Stati Uniti. “Anche Mantin Luter King ottenne il Premio Nobel per la Pace nel 1964. E aveva solo trentacinque anni”, dice prima di sintonizzare la radio sulla stazione preferita. “E Obama, proprio come loro, sta cercando di combattere le ingiustizie. E’ un Presidente vicino alle minoranze, vicino ai bisogni della gente. E vuole la pace. Anzi, attualmente ne è il più grande promotore. L’unico che si sta adoperando attivamente in tal senso”.



In un parco sulla 5ª strada, a pochi passi da uno dei grattacieli più rappresentativi di New York, il Flariton Building, Joel è seduto ad un tavolino e legge il “New York Times”. Fuma una sigaretta dopo l’altra, esibendo un’aria da artista che spicca tra le gente che gli sta intorno. Fino a qualche mese fa, dirigeva una galleria d’arte newyorkese. Vittima della crisi economica, è disoccupato. Viaggiava tanto: Italia, Spagna, Francia, Cina e Giappone. Ora vive stabilmente a New York e lavora come portiere in uno dei palazzi dove, tempo fa, organizzava le mostre. Joel è uno dei tanti americani che sta cercando di rialzarsi. Di riniziare una vita che gli permetta di mantenere la famiglia. Ha voglia di parlare. E’ stato uno dei sostenitori di Obama durante la campagna presidenziale, ma ora nutre qualche dubbio sul premio assegnato al Presidente: “E’ un riconoscimento simbolico. Ci sono uomini che hanno lavorato una vita intera per la pace e mai stati gratificati in tal senso. Detto questo, penso che sia un premio alle intenzioni. Alla voglia che ha di cambiare. Ma deve allontanarsi da quelli che furono gli uomini di Bush, come il comandante della Nato in Afghanistan McChrystal che vorrebbe un aumento delle truppe. E’ una pazzia. Assolutamente una pazzia”.



“Sì, sono d’accordo”, interviene Jessica, venticinque anni, studentessa della Carolina del Nord, newyorkese d’adozione. “Andiamo via dall’Afghanistan, votai Obama anche per questo. Quella è una guerra sporca, non meno di quanto lo fu il Vietnam in passato.”, afferma in tono deciso per farsi sentire da chi le sta intorno. Poi, le voci nel parco, vicino alla fontana, diventano molteplici, finché una le sovrasta tutte, mettendo d’accordo la studentessa e l’ex artista ora portiere, la babysitter e il businessman in pausa lavorativa. Il giallo, il bianco e il nero. I colori dell’America multietnica: “Obama, Nobel Peace price? Why did he get it?”, Nobel per la pace ad Obama? Perché l’ha preso? Dubbio legittimo.




Testo e foto di Vincenzo Sassu

venerdì 25 settembre 2009

I mille volti della partenza


Sensazioni, paure, speranze raccontate attraverso gli occhi e le parole di un militare, un giovane ragazzo del Sud, in partenza per la missione afghana.

Ha il volto della tensione questo ragazzo sardo sulla trentina. E’ alto, robusto, braccia possenti, spalle larghe. Ma l’inquietudine gli si legge negli occhi e traspare dalle sue parole, dal suo sguardo, dal modo in cui osserva il vuoto per trovare i termini giusti, metterli uno dopo l’altro e dare loro un senso. Un significato che vada oltre la tragedia, oltre quella maledetta mattina del 17 settembre scorso. Oltre quell’imboscata sinistra che nel pieno centro di Kabul ha stroncato le vite di sei militari, sei italiani, sei ragazzi. Come lui, che fra due giorni salirà sul quel jet dell’aeronautica militare che porterà i contingenti della Brigata Sassari a migliaia di chilometri di distanza per svolgere la loro missione in Afghanistan, ad Herat.

Come lui, centinaia di ragazzi stanno salutando genitori, parenti, amici. Stanno per lasciare a casa le abitudini, gli amori, gli affetti, quel senso di tranquillità e sicurezza che solo la vita quotidiana ti sa dare. E’ una sensazione di cui spesso non ti accorgi neanche, ma quando la perdi, ti manca disperatamente. Mentre parla, si avvicina qualche amico, lo guarda, muove leggermente la testa, fa cenno di no, lo invita a non partire. E lui risponde con un respiro profondo, inarcando leggermente le sopracciglia in un’espressione che dice tutto. Perchè questo è il suo lavoro. E’ il mestiere che ha scelto tempo fa, pensando anche ai rischi e pericoli che avrebbe potuto e dovuto correre. «Sai, al fatto che potrei anche non rivedere le persone care, stringerle, abbracciarle come sempre cerco di non pensarci. Certo la paura c’è, ma poi subentra anche l’orgoglio e cerchi di mascherarla come puoi. I compagni, il gruppo, l’affiatamento che si crea in missione ti dà coraggio, spesso ti rasserena, ti dà speranza e la forza di reagire alle difficoltà, a certi momenti in cui la tua vita sembra appesa ad un filo e tu pensi alla famiglia, agli affetti. Al fatto che potresti anche non tornare».

Mentre parla, davanti ai suoi occhi sembra scorrere la pellicola di un film già visto. Già, perché questo ragazzo dagli occhi profondi alle spalle ha ormai sei missioni di pace. La maggior parte nei paesi dell’ex Jugoslavia e in Kosovo. Aree che oggi sono più o meno stabili. Tutt’altra cosa rispetto all’Afghanistan attuale. E se ne rese conto due anni fa, nel giugno 2007, quando partì per la sua prima missione in Afghanistan. La più rischiosa della sua vita. «Ricordo quando lasciammo Herat e ci avventurammo nel deserto per una missione di venti giorni circa. Un giorno tre mezzi del mio plotone si sganciarono dal gruppo per un’operazione. Dopo qualche minuto sentimmo una terribile esplosione. Il boato fu così forte che ancora sembra rimbombarmi dentro. Istintivamente mi misi le mani nei capelli, pensando al peggio. Fortunatamente però l’ordigno lasciato andare da una macchina esplose a pochi metri di distanza dal plotone e i miei compagni si salvarono per miracolo», racconta mentre la sua mente ritorna a quei giorni e ad una delle esperienze che più lo terrorizzarono durante quella missione. E che a volte gli toglie il sonno e, certe notti, sembra esplodergli dentro, con tutta quella polvere che solleva, rendendo l’aria pensante, soffocante: «L’immagine di quell’uomo, che saltò in aria mentre piazzava una bomba a neanche quattrocento metri da noi, non la dimenticherò mai».

Così come non dimenticherà mai i sogni che presto lascerà a casa. Perché questo giovane sardo di sogni ne ha tanti e gli si dipingono negli occhi, quelli meridionali, quelli di tanti giovani, talvolta giovanissimi, ragazzi del Sud che partono in missione: vorrebbe sposarsi, avere dei figli, trascorrere una vita tranquilla. Continuare ad amare i propri cari e quel padre dagli occhi preoccupati, dall’espressione apparentemente distesa che cerca di nascondere la paura come può. Quel padre che un giorno vorrebbe abbracciare i nipoti, vorrebbe diventare nonno. E spera che quel figlio alto, robusto, dalle braccia possenti e dalle spalle larghe, possa continuare a regalargli le gioie di sempre. Quelle semplici, genuine. Della vita di tutti i giorni.

Testi di Vincenzo Sassu

mercoledì 23 settembre 2009

Coni di luce

Una sirena a squarciare il silenzio. Otto coni di luce, otto raggi di sole a penetrare il grigiore di un banco di nubi inquieto e svelare la profondità dell’azzurro in quell'incontro lontano fra cielo e terra.

mercoledì 16 settembre 2009

Nuraghi di Cenere


Questo è un reportage che nasce dando voce a chi ha vissuto intensamente i terribili incendi divampati in Sardegna nel luglio scorso: persone che hanno sofferto, rischiato di morire, che hanno perso gran parte del raccolto, il bestiame, l'azienda. Gente comune che, con tenacia e coraggio, vuole risollevarsi e iniziare daccapo. Ma sono persone che vogliono anche capire e far luce su un evento, diventato poi tragedia umana e ambientale, a cui la Sardegna non era preparata.

Ho intervistato così alcuni sindaci della zona che, spesso in prima persona, sono corsi in aiuto dei propri concittadini. Ho parlato con operai dell'Ente Foreste che il 23 e il 24 luglio hanno operato nei boschi sfidando fiamme altissime. Attraverso le lo loro parole, ho cercato di far luce sulle responsabilità, sulle negligenze, sulla mancata prevenzione.

Ho raccontato storie. Storie di vita.



“Cando appo idu cussas fiammas appo pensadu a sa fine de su mundu: mamma mia naraiat gai cando fia pizzinna”, quando ho visto quelle fiamme ho pensato alla fine del mondo: mia madre diceva così quando ero bambina. Dal giardino della sua casa in campagna, lo sguardo di Antonietta si allunga disperato sulla vallata, sorvola le carcasse di due porcospini arsi dalle fiamme, sembra perdersi tra i rami carbonizzati degli alberi. Poi riacquista vigore e si ferma lì, su quella torre in pietra di forma tronco conica, centro della vita sociale degli antichi sardi: il nuraghe.



Attorno alla reggia nuragica di Santu Antine, uno dei monumenti megalitici più importanti del Mediterraneo, nella Valle dei Nuraghi a pochi chilometri da Sassari nei territori di Torralba, Bonorva e Giave, il 23 luglio scorso la furia del fuoco non ha risparmiato uliveti, ha incenerito alberi secolari, come sughereti e querce, carbonizzando vigneti, bruciato faine, volpi e pernici. «Il fuoco è stato appiccato durante la notte, a circa trenta chilometri da qui, nel territorio di Bonorva. Verso le 9 del mattino sembrava che fosse stato spento. Poi, improvvisamente, siamo stati accerchiati dalle fiamme. Era spaventoso, sembrava l’inferno. La fine del mondo», racconta la signora Antonietta accanto al marito, rievocando quel giorno terribile, nel soggiorno di casa. Sul muro e sui mobili le fotografie di figli e nipoti vestiti a festa. Lì, impressa sulla carta fotografica Antonietta sembra un’altra donna. Sorride. Ora è tesa, la sua espressione preoccupata: «Oltre cento ettari del nostro territorio sono stati bruciati, abbiamo perso gran parte del bestiame, il fieno raccolto, la bellezza del nostro paesaggio naturale».

Era una giornata caldissima quel 23 luglio. Il vento di scirocco soffiava sull’Isola rendendo l’aria irrespirabile. Il termometro segnava 40 gradi. In queste condizioni la furia del fuoco ha divorato oltre 25 mila ettari di territorio e danni per oltre 80 milioni di euro. Le aree più colpite sono state quelle del Sassarese, la zona di Olbia, Oristano e la costa sud-occidentale dove interi paesi sono stati circondati dalle fiamme e centinaia di persone costrette ad abbandonare repentinamente le case. Spinto dal vento di Scirocco, il fuoco correva ad una velocità inaudita, ardendo ettari ed ettari di macchia mediterranea e causando due vittime. Sembrava un ciclone. Poi due, poi tre, poi quattro e così via. Alla fine sono stati quindici gli incendi più distruttivi. Novantotto in totale tra il 23 e il 24 luglio.



«In pochi minuti ho visto le fiamme avvolgere la campagna e, percepita la gravità della situazione, sono salito in macchina per dirigermi verso l’azienda e mettere in salvo il bestiame e l’attrezzatura agricola», racconta Gianni Sassu, 37 anni, proprietario di una delle terre maggiormente colpite dall’incendio divampato nel territorio di Mores, un paese a pochi chilometri di Sassari. «Mentre avanzavo, il fumo si faceva sempre più fitto, impedendomi la visuale. Sono uscito fuori strada e mi sono così ritrovato in mezzo al fuoco, nella cunetta. Se avessi aperto il mio sportello, sarei stato completamente avvolto dalle fiamme. Il calore era insopportabile. L’atmosfera irrespirabile. Ho mantenuto la calma e sono uscito dallo sportello opposto. Il quel momento una lingua di fuoco ha bruciato il mio braccio sinistro, poi le mani e il visto. Con la mano destra tenevo un cellulare e, nonostante il dolore, sono riuscito a chiamare un amico che si trovava a poche centinaia di metri di distanza. Con grande coraggio è venuto a soccorrermi, portandomi poi in ospedale. E’ grazie a lui che ora sono qui». Qualche giorno fa, Gianni è stato dimesso dal centro ustioni di Sassari, dov’era ricoverato per più di un mese. Le sue condizioni ora sono buone, anche se, mentre parla, si scorgono i segni profondi delle bruciature sul mani e sul viso. «Nei giorni scorsi ho visitato il terreno dove tengo il bestiame e l’azienda. Ho trovato carcasse di animali selvatici, falchetti, ricci, furetti, martore. C’erano alberi secolari, arbusti di cisto, pungitopo. Molte erano le piante di lentischio, una delle erbe aromatiche più diffuse in Sardegna. Non è rimasto più niente». Le immagini, le paure, i timori sembrano rivivere nelle sue parole, nel suo sguardo che ogni tanto si perde per poi riacquisire tenacia e vigore. Per non arrendersi alla fatalità. E riniziare con coraggio, costanza e tanta volontà.



Secondo la Regione c’è stata una strategia attorno agli incendi. E’ difficile infatti spiegare in altra maniera come almeno quindici roghi di vastissime proporzioni siano partiti contestualmente. In gran parte delle zone devastate dal fuoco sono stati infatti ritrovati mucchi di fiammiferi e pezzi di iuta. Fino ad ora le indagini hanno portato esclusivamente all’arresto di Victor Paun, un bracciante romeno di 48 anni, accusato di non aver dato tempestivamente l’allarme, dopo aver causato l’incendio mentre usava un trattore dell’azienda faunistica di cui era dipendente. Altre quattro persone sono state iscritte nel registro degli indagati per incendio colposo. Certo, non è da escludere che alcuni roghi siano nati per la negligenza o la scarsa precauzione adottata in situazioni di rischio potenziale, ma alcuni degli incendi più vasti che hanno interessato il Nord Sardegna sono partiti durante la notte.

C’è chi parla di responsabilità legate alle ditte private che si occupano della gestione di alcuni Canadair antincendio utilizzati dalla Protezione Civile, chi di rivalità e gelosie maturate nel mondo agro-pastorale. Al momento, diverse sono le piste seguite dagli inquirenti per arrivare ai colpevoli. I Carabinieri della Compagnia di Bonorva confermano che alcuni roghi possono essere stati causati involontariamente, ma l’incendio divampato in quella stessa zona attorno alle quattro del mattino ha dei precisi responsabili. Al riguardo, le indagini sono in corso, non c’è alcuna prova concreta, ma sono stati raccolti una serie di elementi indiziari.



Uno dei primi a parlare di organizzazioni malavitose e criminali è stato Tonino Pischedda, il sindaco di Pozzomaggiore, tra le aree più colpite, con 6 mila ettari del proprio territorio andati in fumo. «Ho visto scene terribili quei giorni: il fuoco che avanzava come l’acqua di un fiume in piena, la paura dei cittadini, i loro occhi lucidi per il fumo e le lacrime, gli scheletri di vacche, pecore e cavalli, l’asfalto fuso dal calore e l’odore insopportabile del catrame bruciato». All’interno del suo ufficio comunale, impreziosito dalla foto della mamma e dal testo di una poesia incorniciata, ogni sua parola, ogni pausa, ogni silenzio si caricano di significato, si colorano di enfasi, si colmano di preoccupazione, di rabbia. E dignità, soprattutto. Perché il sindaco di questo piccolo paese, che ha perso l’80% del suo patrimonio naturale, non ci sta. Non crede alla casualità, alla fatalità dell’evento. E parla di mafia, di tante mafie che dietro agli incendi potrebbero avere degli interessi. Come quelli legati al mercato dei mangimi che, nei prossimi mesi, verranno abbondantemente utilizzati dagli allevatori per alimentare il bestiame, in mancanza di terre pascolabili e foraggio. «E’ inutile negarlo, al momento del bisogno c’è sempre qualcuno che sfrutta la situazione per trarne un guadagno maggiore. E quando la domanda è alta, il prezzo sale: è una legge di mercato. Io non parlo delle piccole aziende locali, ma delle grandi multinazionali dei mangimi che ora potrebbero anche pensare di mettere sul mercato prodotti scaduti o comunque non più commerciabili». Al riguardo, le forze dell’ordine confermano che sarà la Magistratura ad occuparsene ed indagare.



A gettare un’ombra di sospetto sulle grandi aziende produttrici di mangimi c’è anche Pasquino Porcu, il primo cittadino di Mores, un altro centro messo in ginocchio da quelle terribili giornate: un morto, 4 mila ettari di territorio bruciati, danni per migliaia di euro, ecosistema profondamente danneggiato, un rimboschimento andato in fumo. «Dobbiamo prendere in considerazione la possibilità che la Sardegna produca i propri mangimi piuttosto che dipendere dalle importazioni di prodotti delle grandi multinazionali. Gli animali della nostra terra possiamo alimentarli noi, con le nostre risorse, che sono tantissime». E’ una persona calma, flemmatica, il sindaco di questo piccolo paese a pochi chilometri da Sassari, ma l’esperienza vissuta l’ha segnato profondamente. E vorrebbe vederci chiaro. Così come i sindaci sardi che, a fine agosto, si sono riuniti a Cagliari per fare il punto della situazione ad un mese da quelle terribili giornate e cercare di recuperare il tempo perduto per fronteggiare il problema dei roghi, la piaga che ogni estate affligge la Sardegna, incenerendone il patrimonio naturale.



«Troppi ritardi». E’ una voce forte, determinata, perentoria, quella lanciata dai primi cittadini di tanti comuni dell’Isola. E’ un invito ad una maggiore prevenzione, all’utilizzo di mezzi adeguati, all’applicazione di un piano regionale serio ed efficace. Gli amministratori hanno parlato di caos, incertezze, assenze. Hanno evidenziato gli scontri fra la giunta regionale e il responsabile della Protezione Civile, Guido Bertolaso. A mancare sono stati soprattutto l’unità di intervento, il coordinamento tra la protezione civile, i forestali regionali e le forze dell’ordine e, in alcuni casi, l’inesperienza degli operatori di soccorso messi in campo. Persone, come la signora Antonietta Delogu, 68 anni, che si è trovata coinvolta nell’incendio, vivendo sulla propria pelle la paura di quei momenti, lo confermano: «Quando le fiamme sono divampate nella nostra azienda non ero in casa. Ho sentito mio figlio al telefono che piangeva, disperato. Era in attesa dei vigili del fuoco che, al momento dell’arrivo, erano completamente impreparati e quasi privi di acqua nelle cisterne per poter agire immediatamente».



«Le negligenze sono state tante, ma alla base di tutto c’è la mancata prevenzione. Questo è il problema più grande», racconta Martino Tola, capo-squadra dell’Ente Foreste, che il 23 e il 24 luglio, insieme ad altri operai, era in mezzo ai boschi tra fiamme altissime, cercando di fronteggiarne la furia. «Né la Provincia, né i Comuni, né l’Anas, che ormai affida gli appalti ai privati, si sono impegnate abbastanza in questo senso: i cigli delle strade erano cosparsi di fieno così come i confini dei terreni delle aziende che, secondo le prescrizioni regionali antincendio, avrebbero dovuto essere completamente ripuliti. Poi, non ci si può lamentare che le squadre di intervento, attive in quasi 45 mila ettari di terreno, non fossero sufficienti».

Tre milioni di euro è stata la cifra stanziata dalla Regione per coprire i danni alla zootecnia. Per i primi tre mesi, gli allevatori avranno così la possibilità di ottenere gratuitamente i mangimi necessari per alimentare il bestiame. E’ una misura celere, decretata dall’emergenza, ma sicuramente importante quella adottata. Che, almeno per il primo periodo, placherà le richieste e le ire di quanti hanno perso tanto, in alcuni casi tutto: il bestiame, il raccolto, le attrezzature agricole. E sono costretti ad iniziare daccapo. Ora che, in alcune zone, tutto è grigio e i colori della campagna sono scomparsi. Ora che, in tante aree, la macchia mediterranea non odora più di corbezzolo. Nella speranza che qualcosa cambi. E che ognuno si assuma le proprie responsabilità. Finalmente.



Testi e Foto di Vincenzo Sassu

domenica 6 settembre 2009

Fruscii di vento

Il profumo della campagna, i banchi di nuvole bianchissime che si allungano nel cielo, il Maestrale, le palme che si agitano, i fruscii di vento che fanno scricchiolare porte e finestre. E corrono nei Pensieri.

venerdì 28 agosto 2009

Il rosa antico

Hai lasciato che il rosa antico dipingesse il cielo, che le sfumature di giallo lo rendessero caldo, che le pennellate d’azzurro e di bianco lo rasserenassero per la tua partenza. Sei lì, oltre quei monti.

giovedì 25 giugno 2009

La Feria de Abril di Siviglia, il “monumento vivo” di una società in crisi identitaria



In una società in crisi d’identità come quella andalusa, le feste, celebrate annualmente come riti, costituiscono un elemento importante di recupero della tradizione. Concepite dagli andalusi come “monumenti vivi”, le festività contribuiscono così a generare valori, attitudini e comportamenti, determinando i marcatori culturali predominanti della regione.


SIVIGLIA. Erano le otto del mattino e Oscar aveva quasi finito di prepararsi per la più grande festa di Siviglia, la Feria de Abril. Un raggio di sole penetrava attraverso le persiane delle camera e tracciava una scia di luce tra le lenzuola bianche del letto ancora sfatto. Con un gesto delicato della mano si sistema il sombrero grigio e, guardandosi allo specchio, rivede i profondissimi occhi azzurri del papà, che indossava quel vestito da giovane. «Tre anni fa, quando morì mio padre, decisi che l’avrei sempre indossato per rendergli onore. Lui amava profondamente questa festa. Era una tradizione, un’usanza che ereditò dai miei nonni». Intanto il profumo del caffè che arriva dalla cucina suona come un richiamo, ridestandolo dai ricordi della Feria dell’84, la prima che ricordava nitidamente. «Mio padre mi portava a cavalluccio sulle spalle per le vie di Siviglia, indossando questo vestito. La gioia che provavo era indescrivibile. Da lassù, mi sentivo il padrone del mondo».



Ad attenderci sorridente sulla porta c’era José, il cochero, un cugino di Oscar che avrebbe condotto il carro familiare fino al barrio de “Los Remedios”, il quartiere dove si estende l’area di circa mille metri quadrati, sulle rive del fiume Guadalquir, che ospita la Feria. Allegre nei loro trajes de Gitana, il vestito tipico indossato dalle donne, la piccola Agata, Isabel e doña Natalia attraversano il giardino di casa, commosse alla vista del calesse: “Ogni anno è sempre più bello”, sussurrano, osservandone le decorazioni. «Proprio come lo decorava vostro padre, in modo elegante, combinando tradizione e modernità», dice doña Natalia, commuovendosi in ricordo del marito, mentre una dopo l’altro salgono sul carro.



Osservandole così vestite, gli occhi di Oscar si ravvivano, si animano come due destrieri liberi in una prateria sconfinata. Poi, in un attimo, con uno schiocco leggero e un tocco delicato alle briglie, José fa partire i cavalli, attraversando la città in festa. E’ ragazzo scuro di carnagione, dai tratti arabeggianti, di poche parole. Alterna lunghi silenzi a riflessioni profonde: «Al di là del folklore, la Feria per noi diventa importante per riaffermare la nostra identità. Le feste come i carnevali, le fiere o la Settimana Santa sono dei “monumenti vivi” dove si incontrano gli elementi che costituiscono ciascun popolo o città come società o comunità, plasmandone quindi l’identità». José ha ventitré anni, studia letteratura spagnola all’università e parla come un adulto. Ama profondamente la sua terra e racconta di passare ore e ore a studiarne le origini, le influenze delle culture che la dominarono, i costumi, gli usi su libri e romanzi ambientati nel passato.



Proprio come afferma José, le feste, celebrate annualmente come riti, costituiscono un elemento importante di riaffermazione identitaria, in una terra come l’Andalusia, risultato di un lungo processo storico, frutto di influenze fenicie, greche, romane, arabe e cristiane, che hanno contribuito a generare un insieme di valori, attitudini e comportamenti che ne costituiscono i marcatori culturali predominanti. Non c’è festa infatti senza una società e una cultura che la propizi dove proprio la celebrazione festiva rappresenta un elemento fondamentale di congiunzione tra l’individuo e la collettività.



Arrivati al barrio de “Los Rimedios”, la grande Portada, il simbolo della festa si spalanca davanti ai nostri occhi: una porta enorme, quasi 50 metri di altezza, di colore ocra, verde e rosso su sfondo bianco, sovrastata da tre bandiere, quella andalusa, sivigliana e spagnola che sventolano agitate da una leggera brezza. Al di là di questa imponente struttura, denominata “De la Feria a los Toros”, c’è una vera e propria “città”, un villaggio effimero, artificiale che, per una settimana, accoglie visitatori e autoctoni, venditori, curiosi, famosi e artisti.



In una superficie vastissima si intrecciano gli arrecifes della Feria, i viali roboanti di carri e cavalli, che prendono il nome dei più famosi toreri della storia spagnola di tutte le epoche: “Antonio Bienvenida”, “Pascual Márquez Díaz”, “Manuel Garcìa Cuesta “El espartero” e così via. Ricoperti di albero, un terriccio spesso color ocra, le strade sono adornate di lampioni colorati che illuminano l’oscurità della Feria quando cala la notte.



Urla di gioia ci accompagnano mentre il carro percorre lentamente i viali. D’intorno sfilate di cavalli sivigliani, di costumi finemente cuciti e impreziositi di fiori e merletti. Doña Natalia, la piccola Agata, Isabel, Oscar e José, salutano conoscenti, parenti, amici, emozionati così come fosse la prima volta quando, da bambini, passeggiavano per gli arrecifes impolverati respirando la spensieratezza di quei giorni che sembravano senza fine. Emozioni antiche e sensazioni del passato si accendono nello sguardo di doña Natalia che ammira le figlie, Agata e Isabel, rivedendo se stessa, quarant’anni fa, in compagnia dei nonni, impreziosita da quegli stessi abiti.



«Il trascorrere del tempo ha profondamente cambiato lo spirito degli andalusi. Qualche anno fa, “essere andalusi” andava al di là dell’appartenenza territoriale, abbracciava usi, costumi e tradizioni secolari, al giorno d’oggi invece le nuove generazioni non parlano l’andaluso, non conoscono le nostre radici, le nostre particolarità, le influenze delle popoli che ci conquistarono. Io e mio marito abbiamo sempre pensato che conoscere il nostro passato sarebbe stato il modo migliore per vivere il presente: così abbiamo educato Oscar, Isabel e Agata. E ne siamo profondamente orgogliosi». Le parole di doña Natalia sembrano sospendersi nell’aria e vibrare come le note dei chitarristi di flamenco che deliziano le camminate dei sivigliani. Per le strade incontriamo l’entusiasmo degli andalusi, la cui spensieratezza sembra quasi palpabile e contagia l’animo dei forestieri accorsi a Siviglia per celebrare la Feria. Ci sono italiani e inglesi, francesi e brasiliani, americani e giapponesi pronti ad a cogliere quei momenti ed imprimerli in souvenir fotografici per la vita.



Lungo i numerosi arrecifes, in fila come alveari, si allungano più di mille casetas. Nate originariamente come punto di ritrovo per la compravendita di bestiame, negli anni sono diventate i microcosmi familiari dei sivigliani durante la festa. Sono dei monolocali, più o meno grandi, adornati di splendidi motivi decorativi: specchi antichi, lampadari luccicanti, sedie e tavoli in legno finemente scolpiti e disegnati a mano. Nelle casetas si vive intensamente la Feria. E’ un ambiente allegro e cordiale che diventa il luogo perfetto di incontro e riunione tra amici, invitati, conoscenti e familiari, dove spesso si stabiliscono relazioni lavorative, professionali e nascono nuove amicizie. Così come le strade, le piazze, i mercati, le taverne e i bar, le casetas rappresentano dei luoghi fondamentali di aggregazione sociale.



Mentre le ruote del carro continuano a solcare il terriccio dei viali, il sole batte forte, creando giochi di luci e di ombre nell’atmosfera e regalando sensazioni particolari: sembra di vivere le storie raccontate da Sergio Leone in uno dei suoi capolavori western. D’improvviso, nel mezzo del viale Rafael Gómez Ortega “El Gallo”, torero spagnolo del 1800, José tira le briglie, con un gesto sicuro e delicato al tempo stesso, facendo arrestare i cavalli. «Questa è la nostra caseta e l’abbiamo arredata proprio come faceva papà qualche anno fa», mi dice Oscar a bassa voce enfatizzando il suo suono di ogni parola. Mentre scendono dal carro, doña Natalia, Isabel e Agata lo osservano in silenzio. E in quello sguardo c’è tutto il segreto della complicità familiare.



Davanti alla caseta, giovani e anziani, genitori e figli, nonni e nipoti ci attendono, sorridendo, sulla ringhiera che delimita l’entrata. Ad incorniciare l’ingresso, una tenda bianca e verde, che ricopre parte del soffitto, abbellito da stoffe di vari colori: gialle, rosse, bianche e arancioni. Le pareti sono impreziosite da ampi archi disegnati a mano; sullo sfondo dell’affresco, un cielo azzurro, qualche nuvola bianca e il dipinto dell’Alhambra di Granada.
Seduti ad un tavolino di legno, Angel, un ex professore di letteratura spagnola, ora in pensione, mi racconta lo spirito che anima la Feria: «Per sei giorni, nelle casetas riceviamo gli amici, li invitiamo a mangiare e bere, deliziandoli con feste quotidiane a base di canti e balli di flamenco. In realtà però tutti siamo consapevoli che tali momenti di festa costituiscono uno dei pochi elementi che ancora ci permette di sentirci realmente uniti, come una “comunità”. In questo senso, penso che le feste rappresentino il futuro della nostra identità e debbano essere considerate come elementi importanti del nostro processo di sviluppo e recupero identitario».



Il señor Angel parla di recupero identitario non a caso: secondo molti andalusi infatti i tanti elementi e i riferimenti della loro cultura regionale, utilizzati per costruire l’immagine della Spagna, stanno contribuendo ad approfondire una sorta di “alienazione”, soprattutto dei giovani, alle specificità proprie dell’Andalusia e dei suoi tratti identitari. Un fenomeno che rappresenterebbe un ostacolo importante per la presa di coscienza dell’esistenza degli andalusi come popolo. «Questo fenomeno è legato soprattutto all’aspetto artistico e culturale. Ad esempio, il flamenco e la copla, due forme musicali nate in Andalusia ora considerate semplicemente come “spagnole”. La gente si è completamente dimenticata che sono nate e si sono sviluppate nella nostra terra», sostiene ad alta voce Fernando, un signore sulla sessantina, occhiali spessi, vestito elegantemente.



Poco distante da noi, Alejandro, un giovane dagli occhi neri e profondi, abbinati ad una cascata di capelli lunghi fino alle spalle, come nella migliore tradizione gitana, pizzica le corde della chitarra e apre le danze. E’ come un richiamo: in pochi secondi, bambini, ragazzi, adulti e anziani si alternano in passi di flamenco, cadenzati dal battere ritmato di mani e piedi. «Questa è la danza dell’Andalusia, quella che ne definisce il carattere e ne allieta la vita», mi dice orgoglioso Alejandro, durante una pausa musicale. Per il suo carattere sincretico, il flamenco, di origine gitana, rappresenta infatti una delle espressioni culturali che maggiormente hanno definito il processo di costruzione identitario dell’Andalusia, marcando, fin dalle origini, i rituali festivi, cerimoniali, domestici della quotidianità: ambiti dalla vita sociale che acquisirono forme propriamente andaluse.



Intanto il giovane, José, il cochero, che fino a quel momento era stato disparte per la timidezza di partecipare alla discussione e improvvisarsi ballerino, si siede al nostro tavolo, si versa lentamente un bicchiere di cerbeza fresca e, rivolgendosi alle persone presenti in tono fermo e deciso, dice: «Quello che non dobbiamo assolutamente accettare noi andalusi è l’omogeneizzazione imposta dai centri di poter culturale, politico ed economico, interessati al fatto che i popoli perdano la loro identità. Dobbiamo opporci a questa logica di mercato, che sta indebolendo le relazioni umane e sta logorando la nostra identità. Quella andalusa deve essere una cultura di resistenza». Alle parole di José, i gesti di assenso di susseguono. Il suo ragionamento sembra mettere tutti d’accordo: il contadino e il falegname, l’ex professore e lo studente. Uomini e donne. Adulti e ragazzi.



Le notte inizia quando gli ultimi raggi di sole si alzano sopra i tetti delle casetas, nel momento in cui i carri e i cavalli abbandonano la Feria per riposarsi e prepararsi ad un’altra giornata di festa. In pochi attimi, le ventimila lampadine della Portada si illuminano, le vie si animano così di colori e luci differenti. L’atmosfera cambia, ma il cammino intrapreso degli andalusi alla riscoperta di se stessi, dei propri usi, costumi e tradizioni, della propria identità, continua. Come il nostro viaggio, in una terra così ospitale, dove nessuno si sente straniero.



Foto e testi di Vincenzo Sassu

martedì 19 maggio 2009

Dal Messico agli Stati Uniti: l’abbandono di Enrique


“Sono passati otto anni e quella fu l’ultima volta che sentii la sua voce”. La fuga di una madre verso gli Stati Uniti e una telefonata improvvisa: il racconto di un figlio, Enrique, un ragazzo messicano abbandonato in una notte d’estate.


Enrique teneva la sigaretta in modo particolare, come non avevo mai visto. Tra l’indice e l’anulare, con il medio che si arcuava, come un ponte. “Avevo tredici anni, era di uno di quei caldissimi pomeriggi messicani. E durante l’ora della siesta, io e gli amici cercavamo riparo in una vecchia casa diroccata. Ricordo ancora il profumo, le crepe sui muri, le nostre ombre che si allungavano sulle pareti e i raggi di sole che penetravano tra le fessure della porta in legno”.

Mentre parla, Enrique guarda oltre la finestra che si affaccia su Calle Sagasta, una via elegante, ombrosa, popolata del centro di Madrid. Ha il viso tondeggiante e uno sguardo sincero, bonario. Di tanto in tanto si tocca i capelli lisci, di un castano chiaro, pettinati all’indietro. “Vuoi una tequila?”, mi chiede, mostrandomi la bottiglia. “Pura Tequila messicana. E’ un marchio di qualità”, dice con orgoglio mentre la agita delicatamente sollevandola in alto.

“In quelle giornate, qualcuno portava le cartine, altri il tabacco. E fumavano le prime sigarette, nascostamente. Rollare una sigaretta era come un rito che innescava una competizione: facevamo a gara a chi avrebbe fatto la sigaretta migliore, quella che avresti potuto trovare nei pacchi di Marlboro dal tabaccaio”. Ricordandosi quei giorni, si siede sul pavimento, spalle al muro e gambe incrociate: “Stavamo proprio così, seduti in cerchio a tentare “l’impresa”.

La sigaretta intanto si consumava piano: “Vedi, il tempo è così crudele. Pensavo che mi aspettasse e invece anche le se ne va via così, senza far rumore, proprio come mia madre quella notte d’estate. Proprio come la mia adolescenza, consumatasi così ‘in pochi minuti’ come questa”, dice osservando impotente il mozzicone fumante.

“Erano pomeriggi piacevoli di anni tristi, mia madre ci aveva appena lasciati: io, mio padre e due sorelle. Ed era corsa via, per inseguire il suo sogno: andare oltre la frontiera e arrivare negli Stati Uniti. Per mesi e mesi non sapemmo più niente di lei. Mio padre non ebbe il coraggio di rifarsi una vita e per qualche mese vivemmo in quattro in un monolocale a Città del Messico. Poi ci trasferimmo verso sud, dove mio nonno aveva un terreno ed una piccola casa in campagna”.

Poi, due anni dopo, in una serata piovosa d'estate lei ci chiamò. “Ricordo ancora nitidamente quando presi la cornetta del telefono e udii quella voce familiare, che mi cullava da bambino, quel suono che credevo non mi avrebbe mai abbandonato: ‘Sono la mamma’, disse quasi singhiozzando. Non parlai. “Enrique sei tu? Dimmi qualcosa, ti prego. Dimmi qualcosa”.
Continuavo a vivere in uno stato di semi coscienza. Era quello che avevo sempre sognato: udire quella voce, ancora una volta. Ma in quel momento la rabbia per il suo gesto, per averci abbandonato e rincorrere il suo sogno là in America, mi impedì di parlare per un minuto, che pareva eterno.

Poi, riuscii a proferire un timido “Sì”. E allora le sue parole cominciarono a scorrere come un fiume in piena. “Perdonatemi, perdonatemi. In questi mesi mi siete venuti in mente, spesso. Non riuscivo a perdonarmi ciò che feci quella sera. Ricordo quando vi lasciai mentre dormivate. La brezza del vento che mi accarezzava la pelle e mi inondava di colpe. Salii su una carovana che ci lasciò in mezzo al deserto. Soffrii la fame, la sete. Di tanto in tanto osservavo la vostra foto. Ero allo stremo delle forze. Stavo per cedere. Tanti lo fecero. E morirono. Ricordo ancora il loro respiro affannoso. Le labbra secche e la pelle impolverata. I graffi sulle guance. Sembravano delle maschere. Poi arrivò qualcuno che ci caricò violentemente in un camion. Passammo la frontiera con la California. E iniziò un altro incubo. La richiesta dei documenti e la minacciata espulsione. Eravamo partiti con qualche risparmio. Corrompemmo un funzionario. Ottenemmo un passaporto falso. E fuggimmo da quello Stato, per arrivare a Chicago dopo qualche mese”.

“Mentre parlava mi vennero in mente milioni di cose, avrei voluto gridarle che se l’era meritato, che quella sofferenza era niente se paragonata alla nostra. Alle nostre lacrime, ai nostri sogni infranti. Alla nostalgia. Ma dissi solo una frase: ‘Sono contento di sentire la tua voce’. E la pronunciai mordendomi le labbra, fino a farle sanguinare.

In quel momento, i ricordi della mia fanciullezza, le carezze di mia madre, le litigate con i miei fratelli, i rimproveri, le gite familiari in campagna per andare a trovare i nonni mi ritornarono in mente, come un fiume in piena, per bagnare l’aridità di quei giorni. E recuperare interi mesi di lacrime versate.

‘Stai tranquillo. Non piangere. Sono tornata’. Me lo ripeteva forte, cercando di sopraffare i miei singhiozzi, i miei lamenti dell’animo. Le mie grida di rabbia e i sospiri di riconciliazione. Il freddo e il caldo, la luce e l’ombra, il silenzio e il frastuono si impadronirono di me. Mi presero le labbra, paralizzandomi la lingua. Mi guardavo nello specchio antico di fronte al telefono. E vedevo qualcuno. Ma non ero io.

‘Enrique, non posso dirti di più. Ti richiamerò presto. Ti voglio bene’, la sua voce interruppe quello che sembrava un incantesimo. Risvegliandomi. Cercai di dire qualcosa, di intenso, di profondo. Ma le parole si fermarono in gola. Poi si persero nell’animo e rimasero qui. Custodite nel cuore.

Sono ormai passati otto anni e quella fu l’ultima volta che sentii la voce di mia madre”.

Foto e testi di Vincenzo Sassu

giovedì 30 aprile 2009

«Avenida de America? Ultima parada»


Una luce forte, un caldo penetrante, un calore profondo. E’ la prima immagine, la prima sensazione di questo pomeriggio assolato di fine aprile all’Aeropuerto Barajas de Madrid. La pista è deserta, impregnata dell’odore di gomma bruciata dei carrelli d’atterraggio. In lontananza l’orizzonte si sfuma, sfocato dai raggi solari. E il bianco delle strisce dipinte sulla pista, il grigio dell’asfalto, l’azzurro del cielo e il giallo paglierino della vegetazione sembrano fondersi in un unico colore indistinguibile.

L’aeroporto sembra riposare. Godere di una siesta primaverile dal sapore estivo. La gente si muove lentamente, qualcuno dorme, rannicchiato in poltrone d’acciaio dall’aria rinfrescante. E’ un grande aeroporto, una struttura moderna, popolata di giovani turisti europei all’ultima moda e famiglie sudamericane che sembrano uscite dalle telenovele argentine anni ’70. I primi, esaltati nelle loro magliette fluorescenti e All stars dai mille colori; le seconde ricoperte di lunghi vestiti in cotone dalle fantasie floreali.

Poi, ci sono i manager, i vagabondi delle multinazionali irrigiditi nei loro abiti indistinti, con i nodi delle cravatte allentati, a sbuffare di stanchezza accumulata per un viaggio dall’itinerario prestabilito: aeroporto, colloquio lavorativo, passeggiata-lampo per il centro, autobus, aeroporto. Spesso nel giro di poche ore. Nella ventiquattrore, la firma incomprensibile di un accordo commerciale, qualche souvenir per la famiglia. E tanto stress.

Raccolte le valigie, ci ritroviamo insieme nel autobus per il centro di Madrid. Dietro, negli ultimi posti, i giovani allegri nel pregustare la movida madrileňa. Al centro, le famiglie sudamericane anni ’70 emozionate per l’incontro con un parente lontano. Davanti, i manager già logori di stress, che osservano l'allegria dei giovani e per un attimo sognano di tornare ragazzi. Ai tempi delle gite scolastiche e di «com’era bello divertirsi senza “giacca e cravatta”».

Il motore inizia a strepitare.

«Avenida de America? Ultima Parada»


Testi di Vincenzo Sassu

sabato 25 aprile 2009

Il tratto dell'artista

Il cielo è chiarissimo da quassù. Come sospesi in un limbo, rari banchi nuvolosi si muovono allungandosi al di sotto della carlinga e proiettando le loro ombre su paesini sperduti nella campagna, umili lavoratori, coraggiosi braccianti. E qualcuno, che oltre il vetro di una finestra vede la nostra scia e avrebbe voluto toccarla.

D’improvviso il mare, il blu intenso del mare. E barche minuscole, come un’infinità di puntini bianchi sospinti dal vento. Due piccoli borghi isolati e un fiume, lungo come un’anaconda, che serpeggia attraverso i campi spagnoli. Terreni di colori e forme svariate. Trapezoidali, quadrati, triangolari. Verdi, rossicci, marroni e senape.

Una nebbia leggera, il tratto delicato dell’artista.

Testi di Vincenzo Sassu

giovedì 23 aprile 2009

In volo

Come lame taglienti, le creste innevate alpine si protendono verso l'alto, sfiorando quasi la carlinga del veicolo. Rarefatta l'atmosfera, candida la luce, soffici le nuvole: una distesa di zucchero a velo.

Testi di Vincenzo Sassu

martedì 21 aprile 2009

Noi, madri teenager

LONDRA. «Mum, mum, can you hear me? I need some water». Mamma, mamma puoi sentirmi, ho bisogno di un po’ acqua. Lo stridore del contatto tra la ruote e le rotaie è penetrante e sembra coprire quelle voci, che pian piano si fanno più acute. Dopo una lunga sosta alla stazione di Barking, zona est di Londra, la metropolitana inizia a muoversi lentamente, come un vecchio treno che sbuffa, affaticato, attraversando le grandi pianure americane. «Mum, mum, can you hear us. We need some water». Mamma, ci puoi sentire, abbiamo bisogno di un po’ d’acqua. Ora le voci sono due, cambiano, diventano urla. Lamenti di pianto. «Keep quiet, keep quiet, your mum is going to give you some water, but don’t cry». Tranquilli, tranquilli, la vostra mamma vi darà un po’ d’acqua ma non piangete. Sussurra, quasi intimorita, una ragazzina mentre porge loro due biberon. Nel suo maglione, una spilla. Sulla targhetta, un nome: Julie. «Scusate, sono ancora piccoli e io troppo giovane, forse». Forza di volontà, coraggio e un briciolo di rassegnazione si fondono in quelle parole e nello sguardo di quella giovane madre delle due gemelle.

«Ho avuto Ivonne e Sophia quando avevo sedici anni e andavo ancora scuola. Mio padre ci aveva appena lasciati, era scappato di casa, abbandonandoci alla nostra sorte. Mia madre invece lavorava saltuariamente in un’impresa di pulizie, proprio come me». Racconta la ragazza, in un treno quasi vuoto che procede verso il centro città, attraversando quella che un tempo era la periferia londinese ed ora fa parte di una metropoli, che pare infinita. «Purtroppo non posso permettermi di pagarmi una babysitter e porto con me le bimbi al lavoro. A volte il mio datore protesta un po’, ma d’altronde se non le portassi con me non saprei davvero come fare ad andare avanti. I soldi che guadagno mi bastano appena per sopravvivere: mangiare, pagare l’affitto e occuparmi delle piccole», mentre parla Julie osserva i gemelli e in quel sguardo c’è tutta l’incertezza di un presente che attende fiducioso il domani. Il suo racconto sulla Direct line dell’underground finisce ad Aldgate east, ad una fermata da Liverpool Street Station, stazione del centro economico londinese: «Ora devo andare, mi aspetta l’autobus per Hackney, il quartiere in cui abito». Julie si solleva adagio, prepara le bambine, avvolgendole in una vistosa sciarpa rossa e bianca con la scritta “Arsenal”, una delle squadre calcistiche più rappresentative della città. Poi alza timidamente una mano screpolata e segnata dalla fatica e saluta, abbozzando un timido sorriso. Scende lentamente dal treno con il passeggino. E si allontana a piccoli passi sulla banchina quasi deserta.

In poco più di mezz’ora raggiungerà Hackney, quartiere del nord est di Londra, tra le zone della Capitale con la più alta percentuale di ragazze madri.Secondo i dati diffusi dall’organizzazione no-profit “Every child matters” che promuove numerose politiche di sostegno a favore dei giovani, nel 2006 ad Hackney, 214 giovani ragazze come Julie sono rimaste incinte ed il 69% di loro ha deciso poi di abortire. In termini di gravidanze adolescenziali, a Londra, la zona è seconda solo a Lambeth, una circoscrizione centralissima a pochi chilometri da Waterloo Bridge e da Soutbank, aree che portano verso l’abbazia di Westminster.

Non solo nella Capitale, ma in tutta la Gran Bretagna, il numero di gravidanze adolescenziali è molto alto. Il tema è tornato alla ribalta della cronaca nel febbraio scorso, quando il quotidiano “The Sun”, pubblicò il primo piano di un ragazzino con in braccio un neonato: “Dad at 13”, papà a tredici anni, il titolo a caratteri cubitali. La storia di Alfie Patten e della sua ragazza quindicenne, Maisie Roxanne, fece poi il giro del mondo. Secondo i dati diffusi appena qualche giorno fa dall’Ufficio nazionale di statistica anglosassone, nel 2007, in Inghilterra e Galles, più di 43.000 giovani sotto i 18 anni sono rimaste incinte, il 4,8% delle gravidanze complessive in Gran Bretagna. Ad aumentare in particolare è stata la percentuale di ragazze madri al di sotto dei 16 e tra i 13 e i 15 anni. La cifra più alta in tutta Europa: sei volte superiore all’Olanda, quattro all’Italia e tre alla Francia. Inferiore solo agli Stati Uniti tra i paesi del mondo occidentale.

«Questi dati sono solo la punta dell’iceberg, il problema più grande è infatti il numero crescente di giovani che intende il sesso quasi come un’attività ludica. Un atteggiamento che porterà ad un numero sempre maggiore di gravidanze in giovane età e alla trasmissione sessuale di infezioni, causando anche seri danni emotivi che potrebbero rendere davvero difficile un futuro rapporto matrimoniale intimo e appagante», afferma Norman Wells, direttore del Family education Trust, un’organizzazione indipendente fondata nel 1973 con l’obiettivo di individuare le cause che portano alle rotture familiari. Nel 1999, il governo laburista adottò la “Teenage pregnancy strategy”, un programma specifico, attualmente in vigore, allo scopo di dimezzare il numero di gravidanze adolescenziali entro il 2010: un’azione coordinata per contrastare le cause ed affrontare le conseguenze di quello che, in Gran Bretagna, è considerato come uno dei più seri problemi sociali. Nel tempo, l’Unità predisposta dal Governo è stata però duramente criticata: nonostante i 286 milioni di sterline spesi, i risultati infatti sono stati inferiori alle aspettative e dopo una flessione nei primi anni, dal 2005 il tasso di gravidanze in età precoce è tornato a crescere. Non sono così bastati i costosi investimenti a favore delle campagne anticoncezionali per l’uso del preservativo, della pillola del giorno dopo e a favore della promozione dell’educazione sessuale anche nelle scuole.

In un café del centro londinese, incontriamo Suzie, ragazza inglese di 26 anni. Si nasconde dietro un paio di occhiali neri, montatura anni ’70, come la moda giovanile prescrive. La sua carnagione bianca, contrasta con una folta chioma di cappelli rossi, raccolti dietro la nuca da un’infinità di nastrini colorati. «Penso che una delle cause principali del problema sia il deterioramento dei valori familiari, in Gran Bretagna la famiglia ha perso centralità che aveva. Sono sempre più numerose infatti le madri che crescono da sole i propri figli, perché abbandonate dai partner prima e dai genitori poi». Mentre parla, Suzie si perde nello sguardo, ricordando qualcosa, qualcuno. «Mia cugina – continua – ha vissuto lo stesso dramma: è rimasta incinta molto presto, ha lasciato la scuola, è andata a vivere con il suo giovane compagno e la sua vita è cambiata. Ora fa fatica a trovare lavoro, anche temporaneo, e ha smesso praticamente di vivere. Non so come potrà crescere il piccolo Nick». Le sue ultime parole, dedicate al nipote, si colmano di tristezza ed un velo di compassione si stende sul suo viso.

Per contrastare il problema, recentemente, il Dipartimento della Salute ha annunciato un ulteriore stanziamento di 20,5 milioni di sterline: facilitare l’accesso ai contraccettivi e rendere i giovani maggiormente consapevoli delle malattie trasmissibili con il sesso non protetto, sono gli obiettivi della manovra. Un provvedimento che ha già ricevuto le prime critiche dalla società civile: secondo alcuni infatti la promozione dei metodi anticoncezionali e la pillola del giorno dopo ai minorenni, senza il parere dei genitori, sarebbe quasi un incitamento all’attività sessuale. «La “Teenage pregnancy strategy” è stata un disastro per i giovani – commenta ancora Norman Wells – e la promozione degli anticoncezionali per giovani sotto i 16 anni rende sicuramente più difficile per le ragazze resistere alle avances dei loro partner e aumenterebbe la pressione ad avere rapporti sessuali».

C’è da dire che, complessivamente dal 1998, anno in cui è iniziato il programma governativo, c’è stato il 10,7% in meno di gravidanze giovanili, benché negli ultimi anni le percentuali siano aumentate. Nel 2005 ad esempio, 7,462 ragazze sotto i sedici anni sono rimaste incinte, 281 in più rispetto all’anno precedente. Di queste, circa la metà ha interrotto la gravidanza. In poco tempo la percentuale di aborti legali è salita così dal 42% al 49% per le giovani non ancora diciottenni, e al 60% per quelle di età inferiore ai sedici anni.

In un centro ricreativo di Southwark, quartiere del sud di Londra, le fotografie a colori ed in bianco e nero appese sul muro raccontano di bambini gioiosi, che giocano su altalene e si rincorrono dietro ad un pallone. Raccontano di anziani che organizzano eventi di beneficenza, mangiano insieme e scherzano tra loro. Parlano di ragazze, parte fondamentale della comunità, che chiacchierano serenamente: «Tante di loro, nonostante l’età, sono mamme, altre l’avrebbero potuto essere – mi dicono due signore sulla quarantina mentre allestiscono la sala per una recita serale – Le accogliamo qui, parliamo con loro e cerchiamo di capire i motivi dell’aborto, spesso accompagnato da traumi al livello psicologico». E’ ancora presto. Lo spettacolo sarebbe iniziato di lì a poche ore. Una delle due donne, quella più spigliata, mi indica così la foto di una giovane, un primo piano molto intenso: «Quella ragazza, rimase incinta a 18 anni, ma spaventata dalla reazione che avrebbero potuto avere i genitori, decise di abortire. E ne è rimasta profondamente segnata. Non aveva più una vita sociale, viveva il dolore, senza parlarne. Non usciva quasi più. Aveva perso la gioia di vivere». La sua voce si faceva sempre più bassa, quasi impercettibile mentre il suo sguardo si posava sulla foto. Poi il silenzio, per qualche secondo. E con orgoglio: «Ma noi l’abbiamo accolta e l’abbiamo fatta sorridere. Ancora».

Secondo le statistiche pubblicate dal Dipartimento della salute nel 2008, in Inghilterra e Galles il numero di aborti è stato di 201,173, il 22% dei 867,00 concepimenti. In Inghilterra l’aborto è stato legalizzato nel 1968 e, da allora, ogni anno, circa una quarto delle donne incinte decidono di interrompere la gravidanza. Secondo questi dati, la Gran Bretagna potrebbe presto raggiungere la più alta percentuale di aborti di ogni altra nazione occidentale. In tanti sono pronti a sostenere che, per far fronte alle gravidanze adolescenziali, gli sforzi si siano concentrati esclusivamente su una parte del problema, la diffusione dei contraccettivi, sottovalutando numerosi altri fattori, come ad esempio l’educazione sessuale a scuola, ancora poco praticata. «Insegno da più di un anno qui in Inghilterra e sono tra i pochi ad affrontare temi legati alla sessualità. Nella maggior parte dei casi i ragazzi si imbarazzano a parlarne, perché raramente sono stati abituati a farlo», sostiene Roberto, giovane insegnante italiano in una scuola londinese. «Anche trattare il tema con i colleghi non è sempre facile, non ci sono programmi da seguire e quando si riesce a discutere dell’argomento, i ragazzi lo prendono con troppo leggerezza, minimizzandone l’importanza». Al riguardo, un studio recentemente effettuato dalla YouthNet, un’associazione di beneficenza per la guida e il supporto ai giovani, ha rivelato come il 42% dei ragazzi intervistati ritenga di non avere avuto abbastanza educazione sessuale a scuola e più del 30% abbia avuto rapporti non protetti di una notte in stato di ubriachezza.

Sono le cinque del pomeriggio di una giornata umida quando alcuni genitori si raggruppano davanti al cancello verde della scuola in attesa della fine delle lezioni. Chiacchierano, sorridono, si scambiano impressioni, pareri. Poi, quasi d’improvviso, ecco aprirsi la porta principale ed un gruppo di bambini correre all’impazzata lanciandosi, con grida di gioia, sulle braccia dei genitori. Alcuni li stringono forte, altri li sollevano in alto sorridendo, altri ancora iniziano a passeggiare verso l’automobile posteggiata nel parco vicino. Ci sono Musulmani e cristiani, bianchi e di colore, orientali o africani di origine.

L’uscita dalla scuola è una festa per tutti, una gioia per genitori e figli. Non per Louise, 20 anni, capelli biondi, color camomilla e occhi chiari, di un verde che pare smeraldo, appannato da una malinconia profonda. Sembrava lo sguardo di un cucciolo di pochi mesi, percosso e abbandonato. «Louise, che piacere vederti. Come stai? Oggi il bambino è stato tra i migliori. Sai, abbiamo organizzato dei giochi durante la pausa ed è stato tra i più bravi», commenta una signora robusta, ma dal passo svelto, agile. Louise accenna ad un sorriso, senza emozione. Osserva il bambino e suoi occhi si animano di uno sguardo materno, ma privo di entusiasmo. Poi accarezza il viso del piccolo, lo prende per mano, saluta timidamente e sulle sue guance si formano due fossette. E si allontana.

«Louise, aveva 17 anni quando ha partorito Michael, poco dopo è entrata in uno stato di depressione, che ancora, nonostante le cure, non l’ha abbandonata completamente», dice Jane un’insegnante sulla cinquantina, capelli scuri, ondulati ad incorniciare un’espressione bonaria.Louise vive un dramma frequente in Gran Bretagna, dove le ragazze madri spesso soffrono di depressioni post natali e sono afflitte da problemi mentali fino ad alcuni anni dopo il parto. «Rimase incinta per sbaglio. Una sera durante una festa, conobbe un ragazzo, si frequentarono qualche mese, poi concepirono il bambino. Ora vivono insieme, ma lui è disoccupato, lavora saltuariamente e spesso abusa di alcolici», le parole di Jane si trascinano stancamente l’una dopo l’altra. Poi come una fiammella, ravvivata da un improvviso alito di vento, si ravvivano, acquisendo vigore e speranza. «Spesso la invito a casa a passare qualche ora di serenità. Ora siamo più fiduciosi, gli specialisti che la stanno seguendo dicono che abbia fatto molti progressi negli ultimi mesi. Michael ha bisogno di una mamma, una madre che abbia voglia di vivere».

Mentre parla, il cielo si apre pian piano, il sole inizia a tramontare, squarciando le nuvole. Lungo il viale, Louise cammina in lontananza verso casa, poi si ferma, allunga il dito e sembra indicare il sole al piccolo Michael. Quei colori rappresentano per lei il desiderio, la speranza di ritrovare una luce in quegli occhi che sembrano due laghi grigi, dimenticati. Una luce che squarci la malinconia e le ridoni la vita.

Testi di Vincenzo Sassu