venerdì 25 settembre 2009

I mille volti della partenza


Sensazioni, paure, speranze raccontate attraverso gli occhi e le parole di un militare, un giovane ragazzo del Sud, in partenza per la missione afghana.

Ha il volto della tensione questo ragazzo sardo sulla trentina. E’ alto, robusto, braccia possenti, spalle larghe. Ma l’inquietudine gli si legge negli occhi e traspare dalle sue parole, dal suo sguardo, dal modo in cui osserva il vuoto per trovare i termini giusti, metterli uno dopo l’altro e dare loro un senso. Un significato che vada oltre la tragedia, oltre quella maledetta mattina del 17 settembre scorso. Oltre quell’imboscata sinistra che nel pieno centro di Kabul ha stroncato le vite di sei militari, sei italiani, sei ragazzi. Come lui, che fra due giorni salirà sul quel jet dell’aeronautica militare che porterà i contingenti della Brigata Sassari a migliaia di chilometri di distanza per svolgere la loro missione in Afghanistan, ad Herat.

Come lui, centinaia di ragazzi stanno salutando genitori, parenti, amici. Stanno per lasciare a casa le abitudini, gli amori, gli affetti, quel senso di tranquillità e sicurezza che solo la vita quotidiana ti sa dare. E’ una sensazione di cui spesso non ti accorgi neanche, ma quando la perdi, ti manca disperatamente. Mentre parla, si avvicina qualche amico, lo guarda, muove leggermente la testa, fa cenno di no, lo invita a non partire. E lui risponde con un respiro profondo, inarcando leggermente le sopracciglia in un’espressione che dice tutto. Perchè questo è il suo lavoro. E’ il mestiere che ha scelto tempo fa, pensando anche ai rischi e pericoli che avrebbe potuto e dovuto correre. «Sai, al fatto che potrei anche non rivedere le persone care, stringerle, abbracciarle come sempre cerco di non pensarci. Certo la paura c’è, ma poi subentra anche l’orgoglio e cerchi di mascherarla come puoi. I compagni, il gruppo, l’affiatamento che si crea in missione ti dà coraggio, spesso ti rasserena, ti dà speranza e la forza di reagire alle difficoltà, a certi momenti in cui la tua vita sembra appesa ad un filo e tu pensi alla famiglia, agli affetti. Al fatto che potresti anche non tornare».

Mentre parla, davanti ai suoi occhi sembra scorrere la pellicola di un film già visto. Già, perché questo ragazzo dagli occhi profondi alle spalle ha ormai sei missioni di pace. La maggior parte nei paesi dell’ex Jugoslavia e in Kosovo. Aree che oggi sono più o meno stabili. Tutt’altra cosa rispetto all’Afghanistan attuale. E se ne rese conto due anni fa, nel giugno 2007, quando partì per la sua prima missione in Afghanistan. La più rischiosa della sua vita. «Ricordo quando lasciammo Herat e ci avventurammo nel deserto per una missione di venti giorni circa. Un giorno tre mezzi del mio plotone si sganciarono dal gruppo per un’operazione. Dopo qualche minuto sentimmo una terribile esplosione. Il boato fu così forte che ancora sembra rimbombarmi dentro. Istintivamente mi misi le mani nei capelli, pensando al peggio. Fortunatamente però l’ordigno lasciato andare da una macchina esplose a pochi metri di distanza dal plotone e i miei compagni si salvarono per miracolo», racconta mentre la sua mente ritorna a quei giorni e ad una delle esperienze che più lo terrorizzarono durante quella missione. E che a volte gli toglie il sonno e, certe notti, sembra esplodergli dentro, con tutta quella polvere che solleva, rendendo l’aria pensante, soffocante: «L’immagine di quell’uomo, che saltò in aria mentre piazzava una bomba a neanche quattrocento metri da noi, non la dimenticherò mai».

Così come non dimenticherà mai i sogni che presto lascerà a casa. Perché questo giovane sardo di sogni ne ha tanti e gli si dipingono negli occhi, quelli meridionali, quelli di tanti giovani, talvolta giovanissimi, ragazzi del Sud che partono in missione: vorrebbe sposarsi, avere dei figli, trascorrere una vita tranquilla. Continuare ad amare i propri cari e quel padre dagli occhi preoccupati, dall’espressione apparentemente distesa che cerca di nascondere la paura come può. Quel padre che un giorno vorrebbe abbracciare i nipoti, vorrebbe diventare nonno. E spera che quel figlio alto, robusto, dalle braccia possenti e dalle spalle larghe, possa continuare a regalargli le gioie di sempre. Quelle semplici, genuine. Della vita di tutti i giorni.

Testi di Vincenzo Sassu

mercoledì 23 settembre 2009

Coni di luce

Una sirena a squarciare il silenzio. Otto coni di luce, otto raggi di sole a penetrare il grigiore di un banco di nubi inquieto e svelare la profondità dell’azzurro in quell'incontro lontano fra cielo e terra.

mercoledì 16 settembre 2009

Nuraghi di Cenere


Questo è un reportage che nasce dando voce a chi ha vissuto intensamente i terribili incendi divampati in Sardegna nel luglio scorso: persone che hanno sofferto, rischiato di morire, che hanno perso gran parte del raccolto, il bestiame, l'azienda. Gente comune che, con tenacia e coraggio, vuole risollevarsi e iniziare daccapo. Ma sono persone che vogliono anche capire e far luce su un evento, diventato poi tragedia umana e ambientale, a cui la Sardegna non era preparata.

Ho intervistato così alcuni sindaci della zona che, spesso in prima persona, sono corsi in aiuto dei propri concittadini. Ho parlato con operai dell'Ente Foreste che il 23 e il 24 luglio hanno operato nei boschi sfidando fiamme altissime. Attraverso le lo loro parole, ho cercato di far luce sulle responsabilità, sulle negligenze, sulla mancata prevenzione.

Ho raccontato storie. Storie di vita.



“Cando appo idu cussas fiammas appo pensadu a sa fine de su mundu: mamma mia naraiat gai cando fia pizzinna”, quando ho visto quelle fiamme ho pensato alla fine del mondo: mia madre diceva così quando ero bambina. Dal giardino della sua casa in campagna, lo sguardo di Antonietta si allunga disperato sulla vallata, sorvola le carcasse di due porcospini arsi dalle fiamme, sembra perdersi tra i rami carbonizzati degli alberi. Poi riacquista vigore e si ferma lì, su quella torre in pietra di forma tronco conica, centro della vita sociale degli antichi sardi: il nuraghe.



Attorno alla reggia nuragica di Santu Antine, uno dei monumenti megalitici più importanti del Mediterraneo, nella Valle dei Nuraghi a pochi chilometri da Sassari nei territori di Torralba, Bonorva e Giave, il 23 luglio scorso la furia del fuoco non ha risparmiato uliveti, ha incenerito alberi secolari, come sughereti e querce, carbonizzando vigneti, bruciato faine, volpi e pernici. «Il fuoco è stato appiccato durante la notte, a circa trenta chilometri da qui, nel territorio di Bonorva. Verso le 9 del mattino sembrava che fosse stato spento. Poi, improvvisamente, siamo stati accerchiati dalle fiamme. Era spaventoso, sembrava l’inferno. La fine del mondo», racconta la signora Antonietta accanto al marito, rievocando quel giorno terribile, nel soggiorno di casa. Sul muro e sui mobili le fotografie di figli e nipoti vestiti a festa. Lì, impressa sulla carta fotografica Antonietta sembra un’altra donna. Sorride. Ora è tesa, la sua espressione preoccupata: «Oltre cento ettari del nostro territorio sono stati bruciati, abbiamo perso gran parte del bestiame, il fieno raccolto, la bellezza del nostro paesaggio naturale».

Era una giornata caldissima quel 23 luglio. Il vento di scirocco soffiava sull’Isola rendendo l’aria irrespirabile. Il termometro segnava 40 gradi. In queste condizioni la furia del fuoco ha divorato oltre 25 mila ettari di territorio e danni per oltre 80 milioni di euro. Le aree più colpite sono state quelle del Sassarese, la zona di Olbia, Oristano e la costa sud-occidentale dove interi paesi sono stati circondati dalle fiamme e centinaia di persone costrette ad abbandonare repentinamente le case. Spinto dal vento di Scirocco, il fuoco correva ad una velocità inaudita, ardendo ettari ed ettari di macchia mediterranea e causando due vittime. Sembrava un ciclone. Poi due, poi tre, poi quattro e così via. Alla fine sono stati quindici gli incendi più distruttivi. Novantotto in totale tra il 23 e il 24 luglio.



«In pochi minuti ho visto le fiamme avvolgere la campagna e, percepita la gravità della situazione, sono salito in macchina per dirigermi verso l’azienda e mettere in salvo il bestiame e l’attrezzatura agricola», racconta Gianni Sassu, 37 anni, proprietario di una delle terre maggiormente colpite dall’incendio divampato nel territorio di Mores, un paese a pochi chilometri di Sassari. «Mentre avanzavo, il fumo si faceva sempre più fitto, impedendomi la visuale. Sono uscito fuori strada e mi sono così ritrovato in mezzo al fuoco, nella cunetta. Se avessi aperto il mio sportello, sarei stato completamente avvolto dalle fiamme. Il calore era insopportabile. L’atmosfera irrespirabile. Ho mantenuto la calma e sono uscito dallo sportello opposto. Il quel momento una lingua di fuoco ha bruciato il mio braccio sinistro, poi le mani e il visto. Con la mano destra tenevo un cellulare e, nonostante il dolore, sono riuscito a chiamare un amico che si trovava a poche centinaia di metri di distanza. Con grande coraggio è venuto a soccorrermi, portandomi poi in ospedale. E’ grazie a lui che ora sono qui». Qualche giorno fa, Gianni è stato dimesso dal centro ustioni di Sassari, dov’era ricoverato per più di un mese. Le sue condizioni ora sono buone, anche se, mentre parla, si scorgono i segni profondi delle bruciature sul mani e sul viso. «Nei giorni scorsi ho visitato il terreno dove tengo il bestiame e l’azienda. Ho trovato carcasse di animali selvatici, falchetti, ricci, furetti, martore. C’erano alberi secolari, arbusti di cisto, pungitopo. Molte erano le piante di lentischio, una delle erbe aromatiche più diffuse in Sardegna. Non è rimasto più niente». Le immagini, le paure, i timori sembrano rivivere nelle sue parole, nel suo sguardo che ogni tanto si perde per poi riacquisire tenacia e vigore. Per non arrendersi alla fatalità. E riniziare con coraggio, costanza e tanta volontà.



Secondo la Regione c’è stata una strategia attorno agli incendi. E’ difficile infatti spiegare in altra maniera come almeno quindici roghi di vastissime proporzioni siano partiti contestualmente. In gran parte delle zone devastate dal fuoco sono stati infatti ritrovati mucchi di fiammiferi e pezzi di iuta. Fino ad ora le indagini hanno portato esclusivamente all’arresto di Victor Paun, un bracciante romeno di 48 anni, accusato di non aver dato tempestivamente l’allarme, dopo aver causato l’incendio mentre usava un trattore dell’azienda faunistica di cui era dipendente. Altre quattro persone sono state iscritte nel registro degli indagati per incendio colposo. Certo, non è da escludere che alcuni roghi siano nati per la negligenza o la scarsa precauzione adottata in situazioni di rischio potenziale, ma alcuni degli incendi più vasti che hanno interessato il Nord Sardegna sono partiti durante la notte.

C’è chi parla di responsabilità legate alle ditte private che si occupano della gestione di alcuni Canadair antincendio utilizzati dalla Protezione Civile, chi di rivalità e gelosie maturate nel mondo agro-pastorale. Al momento, diverse sono le piste seguite dagli inquirenti per arrivare ai colpevoli. I Carabinieri della Compagnia di Bonorva confermano che alcuni roghi possono essere stati causati involontariamente, ma l’incendio divampato in quella stessa zona attorno alle quattro del mattino ha dei precisi responsabili. Al riguardo, le indagini sono in corso, non c’è alcuna prova concreta, ma sono stati raccolti una serie di elementi indiziari.



Uno dei primi a parlare di organizzazioni malavitose e criminali è stato Tonino Pischedda, il sindaco di Pozzomaggiore, tra le aree più colpite, con 6 mila ettari del proprio territorio andati in fumo. «Ho visto scene terribili quei giorni: il fuoco che avanzava come l’acqua di un fiume in piena, la paura dei cittadini, i loro occhi lucidi per il fumo e le lacrime, gli scheletri di vacche, pecore e cavalli, l’asfalto fuso dal calore e l’odore insopportabile del catrame bruciato». All’interno del suo ufficio comunale, impreziosito dalla foto della mamma e dal testo di una poesia incorniciata, ogni sua parola, ogni pausa, ogni silenzio si caricano di significato, si colorano di enfasi, si colmano di preoccupazione, di rabbia. E dignità, soprattutto. Perché il sindaco di questo piccolo paese, che ha perso l’80% del suo patrimonio naturale, non ci sta. Non crede alla casualità, alla fatalità dell’evento. E parla di mafia, di tante mafie che dietro agli incendi potrebbero avere degli interessi. Come quelli legati al mercato dei mangimi che, nei prossimi mesi, verranno abbondantemente utilizzati dagli allevatori per alimentare il bestiame, in mancanza di terre pascolabili e foraggio. «E’ inutile negarlo, al momento del bisogno c’è sempre qualcuno che sfrutta la situazione per trarne un guadagno maggiore. E quando la domanda è alta, il prezzo sale: è una legge di mercato. Io non parlo delle piccole aziende locali, ma delle grandi multinazionali dei mangimi che ora potrebbero anche pensare di mettere sul mercato prodotti scaduti o comunque non più commerciabili». Al riguardo, le forze dell’ordine confermano che sarà la Magistratura ad occuparsene ed indagare.



A gettare un’ombra di sospetto sulle grandi aziende produttrici di mangimi c’è anche Pasquino Porcu, il primo cittadino di Mores, un altro centro messo in ginocchio da quelle terribili giornate: un morto, 4 mila ettari di territorio bruciati, danni per migliaia di euro, ecosistema profondamente danneggiato, un rimboschimento andato in fumo. «Dobbiamo prendere in considerazione la possibilità che la Sardegna produca i propri mangimi piuttosto che dipendere dalle importazioni di prodotti delle grandi multinazionali. Gli animali della nostra terra possiamo alimentarli noi, con le nostre risorse, che sono tantissime». E’ una persona calma, flemmatica, il sindaco di questo piccolo paese a pochi chilometri da Sassari, ma l’esperienza vissuta l’ha segnato profondamente. E vorrebbe vederci chiaro. Così come i sindaci sardi che, a fine agosto, si sono riuniti a Cagliari per fare il punto della situazione ad un mese da quelle terribili giornate e cercare di recuperare il tempo perduto per fronteggiare il problema dei roghi, la piaga che ogni estate affligge la Sardegna, incenerendone il patrimonio naturale.



«Troppi ritardi». E’ una voce forte, determinata, perentoria, quella lanciata dai primi cittadini di tanti comuni dell’Isola. E’ un invito ad una maggiore prevenzione, all’utilizzo di mezzi adeguati, all’applicazione di un piano regionale serio ed efficace. Gli amministratori hanno parlato di caos, incertezze, assenze. Hanno evidenziato gli scontri fra la giunta regionale e il responsabile della Protezione Civile, Guido Bertolaso. A mancare sono stati soprattutto l’unità di intervento, il coordinamento tra la protezione civile, i forestali regionali e le forze dell’ordine e, in alcuni casi, l’inesperienza degli operatori di soccorso messi in campo. Persone, come la signora Antonietta Delogu, 68 anni, che si è trovata coinvolta nell’incendio, vivendo sulla propria pelle la paura di quei momenti, lo confermano: «Quando le fiamme sono divampate nella nostra azienda non ero in casa. Ho sentito mio figlio al telefono che piangeva, disperato. Era in attesa dei vigili del fuoco che, al momento dell’arrivo, erano completamente impreparati e quasi privi di acqua nelle cisterne per poter agire immediatamente».



«Le negligenze sono state tante, ma alla base di tutto c’è la mancata prevenzione. Questo è il problema più grande», racconta Martino Tola, capo-squadra dell’Ente Foreste, che il 23 e il 24 luglio, insieme ad altri operai, era in mezzo ai boschi tra fiamme altissime, cercando di fronteggiarne la furia. «Né la Provincia, né i Comuni, né l’Anas, che ormai affida gli appalti ai privati, si sono impegnate abbastanza in questo senso: i cigli delle strade erano cosparsi di fieno così come i confini dei terreni delle aziende che, secondo le prescrizioni regionali antincendio, avrebbero dovuto essere completamente ripuliti. Poi, non ci si può lamentare che le squadre di intervento, attive in quasi 45 mila ettari di terreno, non fossero sufficienti».

Tre milioni di euro è stata la cifra stanziata dalla Regione per coprire i danni alla zootecnia. Per i primi tre mesi, gli allevatori avranno così la possibilità di ottenere gratuitamente i mangimi necessari per alimentare il bestiame. E’ una misura celere, decretata dall’emergenza, ma sicuramente importante quella adottata. Che, almeno per il primo periodo, placherà le richieste e le ire di quanti hanno perso tanto, in alcuni casi tutto: il bestiame, il raccolto, le attrezzature agricole. E sono costretti ad iniziare daccapo. Ora che, in alcune zone, tutto è grigio e i colori della campagna sono scomparsi. Ora che, in tante aree, la macchia mediterranea non odora più di corbezzolo. Nella speranza che qualcosa cambi. E che ognuno si assuma le proprie responsabilità. Finalmente.



Testi e Foto di Vincenzo Sassu

domenica 6 settembre 2009

Fruscii di vento

Il profumo della campagna, i banchi di nuvole bianchissime che si allungano nel cielo, il Maestrale, le palme che si agitano, i fruscii di vento che fanno scricchiolare porte e finestre. E corrono nei Pensieri.