giovedì 25 giugno 2009
La Feria de Abril di Siviglia, il “monumento vivo” di una società in crisi identitaria
In una società in crisi d’identità come quella andalusa, le feste, celebrate annualmente come riti, costituiscono un elemento importante di recupero della tradizione. Concepite dagli andalusi come “monumenti vivi”, le festività contribuiscono così a generare valori, attitudini e comportamenti, determinando i marcatori culturali predominanti della regione.
SIVIGLIA. Erano le otto del mattino e Oscar aveva quasi finito di prepararsi per la più grande festa di Siviglia, la Feria de Abril. Un raggio di sole penetrava attraverso le persiane delle camera e tracciava una scia di luce tra le lenzuola bianche del letto ancora sfatto. Con un gesto delicato della mano si sistema il sombrero grigio e, guardandosi allo specchio, rivede i profondissimi occhi azzurri del papà, che indossava quel vestito da giovane. «Tre anni fa, quando morì mio padre, decisi che l’avrei sempre indossato per rendergli onore. Lui amava profondamente questa festa. Era una tradizione, un’usanza che ereditò dai miei nonni». Intanto il profumo del caffè che arriva dalla cucina suona come un richiamo, ridestandolo dai ricordi della Feria dell’84, la prima che ricordava nitidamente. «Mio padre mi portava a cavalluccio sulle spalle per le vie di Siviglia, indossando questo vestito. La gioia che provavo era indescrivibile. Da lassù, mi sentivo il padrone del mondo».
Ad attenderci sorridente sulla porta c’era José, il cochero, un cugino di Oscar che avrebbe condotto il carro familiare fino al barrio de “Los Remedios”, il quartiere dove si estende l’area di circa mille metri quadrati, sulle rive del fiume Guadalquir, che ospita la Feria. Allegre nei loro trajes de Gitana, il vestito tipico indossato dalle donne, la piccola Agata, Isabel e doña Natalia attraversano il giardino di casa, commosse alla vista del calesse: “Ogni anno è sempre più bello”, sussurrano, osservandone le decorazioni. «Proprio come lo decorava vostro padre, in modo elegante, combinando tradizione e modernità», dice doña Natalia, commuovendosi in ricordo del marito, mentre una dopo l’altro salgono sul carro.
Osservandole così vestite, gli occhi di Oscar si ravvivano, si animano come due destrieri liberi in una prateria sconfinata. Poi, in un attimo, con uno schiocco leggero e un tocco delicato alle briglie, José fa partire i cavalli, attraversando la città in festa. E’ ragazzo scuro di carnagione, dai tratti arabeggianti, di poche parole. Alterna lunghi silenzi a riflessioni profonde: «Al di là del folklore, la Feria per noi diventa importante per riaffermare la nostra identità. Le feste come i carnevali, le fiere o la Settimana Santa sono dei “monumenti vivi” dove si incontrano gli elementi che costituiscono ciascun popolo o città come società o comunità, plasmandone quindi l’identità». José ha ventitré anni, studia letteratura spagnola all’università e parla come un adulto. Ama profondamente la sua terra e racconta di passare ore e ore a studiarne le origini, le influenze delle culture che la dominarono, i costumi, gli usi su libri e romanzi ambientati nel passato.
Proprio come afferma José, le feste, celebrate annualmente come riti, costituiscono un elemento importante di riaffermazione identitaria, in una terra come l’Andalusia, risultato di un lungo processo storico, frutto di influenze fenicie, greche, romane, arabe e cristiane, che hanno contribuito a generare un insieme di valori, attitudini e comportamenti che ne costituiscono i marcatori culturali predominanti. Non c’è festa infatti senza una società e una cultura che la propizi dove proprio la celebrazione festiva rappresenta un elemento fondamentale di congiunzione tra l’individuo e la collettività.
Arrivati al barrio de “Los Rimedios”, la grande Portada, il simbolo della festa si spalanca davanti ai nostri occhi: una porta enorme, quasi 50 metri di altezza, di colore ocra, verde e rosso su sfondo bianco, sovrastata da tre bandiere, quella andalusa, sivigliana e spagnola che sventolano agitate da una leggera brezza. Al di là di questa imponente struttura, denominata “De la Feria a los Toros”, c’è una vera e propria “città”, un villaggio effimero, artificiale che, per una settimana, accoglie visitatori e autoctoni, venditori, curiosi, famosi e artisti.
In una superficie vastissima si intrecciano gli arrecifes della Feria, i viali roboanti di carri e cavalli, che prendono il nome dei più famosi toreri della storia spagnola di tutte le epoche: “Antonio Bienvenida”, “Pascual Márquez Díaz”, “Manuel Garcìa Cuesta “El espartero” e così via. Ricoperti di albero, un terriccio spesso color ocra, le strade sono adornate di lampioni colorati che illuminano l’oscurità della Feria quando cala la notte.
Urla di gioia ci accompagnano mentre il carro percorre lentamente i viali. D’intorno sfilate di cavalli sivigliani, di costumi finemente cuciti e impreziositi di fiori e merletti. Doña Natalia, la piccola Agata, Isabel, Oscar e José, salutano conoscenti, parenti, amici, emozionati così come fosse la prima volta quando, da bambini, passeggiavano per gli arrecifes impolverati respirando la spensieratezza di quei giorni che sembravano senza fine. Emozioni antiche e sensazioni del passato si accendono nello sguardo di doña Natalia che ammira le figlie, Agata e Isabel, rivedendo se stessa, quarant’anni fa, in compagnia dei nonni, impreziosita da quegli stessi abiti.
«Il trascorrere del tempo ha profondamente cambiato lo spirito degli andalusi. Qualche anno fa, “essere andalusi” andava al di là dell’appartenenza territoriale, abbracciava usi, costumi e tradizioni secolari, al giorno d’oggi invece le nuove generazioni non parlano l’andaluso, non conoscono le nostre radici, le nostre particolarità, le influenze delle popoli che ci conquistarono. Io e mio marito abbiamo sempre pensato che conoscere il nostro passato sarebbe stato il modo migliore per vivere il presente: così abbiamo educato Oscar, Isabel e Agata. E ne siamo profondamente orgogliosi». Le parole di doña Natalia sembrano sospendersi nell’aria e vibrare come le note dei chitarristi di flamenco che deliziano le camminate dei sivigliani. Per le strade incontriamo l’entusiasmo degli andalusi, la cui spensieratezza sembra quasi palpabile e contagia l’animo dei forestieri accorsi a Siviglia per celebrare la Feria. Ci sono italiani e inglesi, francesi e brasiliani, americani e giapponesi pronti ad a cogliere quei momenti ed imprimerli in souvenir fotografici per la vita.
Lungo i numerosi arrecifes, in fila come alveari, si allungano più di mille casetas. Nate originariamente come punto di ritrovo per la compravendita di bestiame, negli anni sono diventate i microcosmi familiari dei sivigliani durante la festa. Sono dei monolocali, più o meno grandi, adornati di splendidi motivi decorativi: specchi antichi, lampadari luccicanti, sedie e tavoli in legno finemente scolpiti e disegnati a mano. Nelle casetas si vive intensamente la Feria. E’ un ambiente allegro e cordiale che diventa il luogo perfetto di incontro e riunione tra amici, invitati, conoscenti e familiari, dove spesso si stabiliscono relazioni lavorative, professionali e nascono nuove amicizie. Così come le strade, le piazze, i mercati, le taverne e i bar, le casetas rappresentano dei luoghi fondamentali di aggregazione sociale.
Mentre le ruote del carro continuano a solcare il terriccio dei viali, il sole batte forte, creando giochi di luci e di ombre nell’atmosfera e regalando sensazioni particolari: sembra di vivere le storie raccontate da Sergio Leone in uno dei suoi capolavori western. D’improvviso, nel mezzo del viale Rafael Gómez Ortega “El Gallo”, torero spagnolo del 1800, José tira le briglie, con un gesto sicuro e delicato al tempo stesso, facendo arrestare i cavalli. «Questa è la nostra caseta e l’abbiamo arredata proprio come faceva papà qualche anno fa», mi dice Oscar a bassa voce enfatizzando il suo suono di ogni parola. Mentre scendono dal carro, doña Natalia, Isabel e Agata lo osservano in silenzio. E in quello sguardo c’è tutto il segreto della complicità familiare.
Davanti alla caseta, giovani e anziani, genitori e figli, nonni e nipoti ci attendono, sorridendo, sulla ringhiera che delimita l’entrata. Ad incorniciare l’ingresso, una tenda bianca e verde, che ricopre parte del soffitto, abbellito da stoffe di vari colori: gialle, rosse, bianche e arancioni. Le pareti sono impreziosite da ampi archi disegnati a mano; sullo sfondo dell’affresco, un cielo azzurro, qualche nuvola bianca e il dipinto dell’Alhambra di Granada.
Seduti ad un tavolino di legno, Angel, un ex professore di letteratura spagnola, ora in pensione, mi racconta lo spirito che anima la Feria: «Per sei giorni, nelle casetas riceviamo gli amici, li invitiamo a mangiare e bere, deliziandoli con feste quotidiane a base di canti e balli di flamenco. In realtà però tutti siamo consapevoli che tali momenti di festa costituiscono uno dei pochi elementi che ancora ci permette di sentirci realmente uniti, come una “comunità”. In questo senso, penso che le feste rappresentino il futuro della nostra identità e debbano essere considerate come elementi importanti del nostro processo di sviluppo e recupero identitario».
Il señor Angel parla di recupero identitario non a caso: secondo molti andalusi infatti i tanti elementi e i riferimenti della loro cultura regionale, utilizzati per costruire l’immagine della Spagna, stanno contribuendo ad approfondire una sorta di “alienazione”, soprattutto dei giovani, alle specificità proprie dell’Andalusia e dei suoi tratti identitari. Un fenomeno che rappresenterebbe un ostacolo importante per la presa di coscienza dell’esistenza degli andalusi come popolo. «Questo fenomeno è legato soprattutto all’aspetto artistico e culturale. Ad esempio, il flamenco e la copla, due forme musicali nate in Andalusia ora considerate semplicemente come “spagnole”. La gente si è completamente dimenticata che sono nate e si sono sviluppate nella nostra terra», sostiene ad alta voce Fernando, un signore sulla sessantina, occhiali spessi, vestito elegantemente.
Poco distante da noi, Alejandro, un giovane dagli occhi neri e profondi, abbinati ad una cascata di capelli lunghi fino alle spalle, come nella migliore tradizione gitana, pizzica le corde della chitarra e apre le danze. E’ come un richiamo: in pochi secondi, bambini, ragazzi, adulti e anziani si alternano in passi di flamenco, cadenzati dal battere ritmato di mani e piedi. «Questa è la danza dell’Andalusia, quella che ne definisce il carattere e ne allieta la vita», mi dice orgoglioso Alejandro, durante una pausa musicale. Per il suo carattere sincretico, il flamenco, di origine gitana, rappresenta infatti una delle espressioni culturali che maggiormente hanno definito il processo di costruzione identitario dell’Andalusia, marcando, fin dalle origini, i rituali festivi, cerimoniali, domestici della quotidianità: ambiti dalla vita sociale che acquisirono forme propriamente andaluse.
Intanto il giovane, José, il cochero, che fino a quel momento era stato disparte per la timidezza di partecipare alla discussione e improvvisarsi ballerino, si siede al nostro tavolo, si versa lentamente un bicchiere di cerbeza fresca e, rivolgendosi alle persone presenti in tono fermo e deciso, dice: «Quello che non dobbiamo assolutamente accettare noi andalusi è l’omogeneizzazione imposta dai centri di poter culturale, politico ed economico, interessati al fatto che i popoli perdano la loro identità. Dobbiamo opporci a questa logica di mercato, che sta indebolendo le relazioni umane e sta logorando la nostra identità. Quella andalusa deve essere una cultura di resistenza». Alle parole di José, i gesti di assenso di susseguono. Il suo ragionamento sembra mettere tutti d’accordo: il contadino e il falegname, l’ex professore e lo studente. Uomini e donne. Adulti e ragazzi.
Le notte inizia quando gli ultimi raggi di sole si alzano sopra i tetti delle casetas, nel momento in cui i carri e i cavalli abbandonano la Feria per riposarsi e prepararsi ad un’altra giornata di festa. In pochi attimi, le ventimila lampadine della Portada si illuminano, le vie si animano così di colori e luci differenti. L’atmosfera cambia, ma il cammino intrapreso degli andalusi alla riscoperta di se stessi, dei propri usi, costumi e tradizioni, della propria identità, continua. Come il nostro viaggio, in una terra così ospitale, dove nessuno si sente straniero.
Foto e testi di Vincenzo Sassu
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