giovedì 25 marzo 2010

Alluminio come piombo


Continua la battaglia degli operai dell'Alcoa di Portovesme, area del Sulcis iglesiente, tra le più povere della Sardegna. Ora, Tutto è nelle mani di Bruxelles che sta valutando il decreto legge sulle agevolazioni energetiche preparato dal Governo. Ma c’è il timore che in futuro la multinazionale americana lasci comunque l’Italia per paesi dove l’energia costa meno e la produzione è maggiore. Per questo i sindacati chiedono garanzie.

Ai caschi blu dell’Alcoa di Portovesme non resta che invocare “Nostra Signora de sa cosa ‘e pappai”, la Madonna del cibo, in attesa che il 22 febbraio prossimo, la multinazionale americana dell’alluminio decida definitivamente di revocare la decisione di chiudere gli stabilimenti sardi del Sulcis e quelli veneti di Fusina. L’ultimo vertice tra governo, azienda e sindacati si è chiuso infatti con un rinvio concordato tra le parti. Si aspettano nuove prospettive, ma gli impianti industriali non si fermano, almeno fino a quella data. La lotta degli operai non è finita quindi. Perché il piccolo centro di Portoscuso, vicino ad Iglesias, di cui fa parte l’area industriale di Portovesme, vive il dramma di chi ha perso o sta perdendo il posto di lavoro e del futuro incerto di una zona dell’isola che ha sempre vissuto del lavoro dei suoi minatori prima e dei suoi operai ora.

In questo centro abitato, che porta addirittura le ciminiere nel suo stemma, si sta sgretolando il sogno di una Sardegna industriale al riparo dalla crisi. Solo nel polo industriale di Portovesme ci sono in ballo circa 5000 buste paga, la metà sono già entrate nel limbo della cassa integrazione, lavoratori che chiedono di uscirne al più presto. E stanno battagliando, proprio come negli ultimi mesi, hanno fatto gli operai Alcoa, la multinazionale produttrice di alluminio, bloccando l’aeroporto di Cagliari e la Carlo Felice, la principale arteria stradale sarda. L’hanno fatto bruciando copertoni, gridando “Non molleremo mai”, sbattendo ritmicamente i caschi sull’asfalto così come davanti a Montecitorio, o guidando il corteo dei 50 mila scesi in piazza nel capoluogo sardo per il lavoro il 6 febbraio scorso. Hanno manifestato con vigore, chiedendo “lavoro e rispetto” e trasportando piccole bare, con il casco deposto, per celebrare il funerale industriale. Sono arrivati perfino al carnevale di Venezia gli operai dell’Alcoa, improvvisando uno streaptease simbolico di un futuro che potrebbe spogliarli di un diritto fondamentale, quello su cui si fonda la Repubblica italiana: il diritto al lavoro e di uno stipendio indispensabile per sfamare la famiglia, far studiare i figli, continuare a vivere con dignità.



«I nostri genitori hanno fatto lotte e battaglie e noi siamo qui anche per loro», gridano gli operai che manifestano in Piazza Colonna a Roma. «Ho una famiglia, dei figli piccoli, tre femmine e un maschietto. Se perdessi il lavoro sarebbe una disperazione», racconta un lavoratore veneto dell’Alcoa di Fusina. Tra gli operai del Sulcis c’è anche chi è costretto ad emigrare per mantenere la famiglia: «Non possiamo vivere senza stipendio. Ora a 48 anni devo chiedere un aiuto finanziario a mia madre. Ho una figlia a Roma che studia all’università ma, questa settimana, dovrà rientrare perché non riusciamo più a pagarle le spese. Mi sento umiliato come persona, e penso addirittura di andare a lavorare all’estero. Qui non ci sono prospettive e, alla mia età, sono costretto ad andare via. Non è possibile andare avanti così: vivo male e faccio vivere male anche la mia famiglia».

Hanno conquistato le prime pagine di giornali e la ribalta televisiva i lavoratori di Portovesme, così come diciotto anni fa, fecero i minatori della Carbonsulcis, nella miniera di Nuraxi Figus, che, con il passamontagna in testa, si barricarono per un mese in gallerie scavate nelle viscere della terra, toccando quota meno 400 metri. «Forse non basta venire qui, forse stiamo perdendo tempo. Ma non abbiamo alternative, dobbiamo farci sentire, dobbiamo gridare il nostro volere. Se ci fermiamo, siamo perduti. Non possiamo mollare, la fabbrica deve rimanere aperta», hanno gridato i lavoratori davanti al Parlamento, perché i posti di lavoro a rischio sono tanti: 450 a Porto Maghera, 500 a Portovesme e altri 500 all’indotto. Ad allontanare per il momento lo spettro della cassa integrazione, ci sono le 7 mila tonnellate di allumina arrivate in nave dalla Spagna. Dovrebbero assicurare autonomia fino al 22 febbraio, giorno in cui Alcoa, al termine dell’incontro con governo e sindacati, comunicherà la decisione di abbandonare o meno gli stabilimenti italiani. Ora, le è stato chiesto di non chiudere le fabbriche finché Bruxelles non si pronuncerà sul decreto legge che prevede agevolazioni energetiche nelle aree considerate svantaggiate: Sicilia e Sardegna. Tutto dipenderà quindi dalla decisione che, a breve, prenderà la Commissione europea. Fonti UE rivelano che le misure contenute nel testo legislativo potrebbero essere considerate come aiuti illegittimi.



Per rimanere in Italia, la multinazionale di Pittsbough, 63 mila dipendenti in 31 paesi del mondo, avrebbe infatti richiesto al governo un intervento regolatorio sulle tariffe energetiche, giudicate troppe alte, maggiori rispetto alla media europea. L’alluminio viene infatti prodotto tramite particolari processi elettronici, che richiedono elevati consumi di energia elettrica (circa 15-16 kWh per ogni kg prodotto). Allo stato attuale, per ogni tonnellata di prodotto, il costo della corrente incide così più dell’alluminio e dei costi di personale. In un comunicato diffuso nel novembre scorso, Alcoa precisa che la sospensione della produzione era stata decisa per le “incertezze sulla fornitura di elettricità, per i suoi forni di fusione a tariffe competitive e per l’impatto finanziario della decisione della Comunità europea”. Bruxelles infatti chiede alla multinazionale americana le sovvenzioni avute dal 2006 sui prezzi dell’elettricità in Italia, sostenendo che si tratti appunto di aiuti pubblici illegali.

Per capire il caso Alcoa bisogna però tornare indietro nel tempo, al 1995, quando per l’impianto sulcitano produttore di alluminio finisce l’era delle partecipazioni statali e le agevolazioni di Stato fino ad allora concesse non sono più permesse dall’Europa. In quell’anno, la società stipula con Enel, il fornitore di elettricità italiano, un contratto che le assicura tariffe fisse per dieci anni. All’epoca la Commissione autorizza l’operazione perché la considera come manovra commerciale ordinaria conclusa alle condizioni di mercato. Ma, nel 2006, alla scadenza del contratto, Bruxelles apre una procedura di infrazione che vuole l’abolizione delle tariffe elettriche speciali. I vertici di Alcoa lasciano allora intendere che una decisione del genere potrebbe costringerli anche a lasciare l’Italia. Per risolvere la questione ed evitare la chiusura degli stabilimenti, viene allora adottato una sorta di escamotage: l’azienda, continua a beneficiare di tariffe privilegiate secondo un diverso dispositivo: acquista la sua elettricità dall'Enel come in precedenza, ma è lo Stato italiano a rimborsale la differenza con la tariffa storica. E questo la Commissione lo considera come "un aiuto pubblico illegale". Perciò, ora Bruxelles chiede ad Alcoa le sovvenzioni avute dal 2006 in poi. Una cifra che, secondo fonti sindacali, ammonterebbe a circa 270 mila euro.

L’impatto finanziario di questa decisione e l’alto costo dell’energia nel nostro paese potrebbero portare Alcoa a lasciare l’Italia. Per convincerla a non farlo però il governo ha preparato un decreto legislativo, tuttora al vaglio della Commissione, che prevede tariffe energetiche vantaggiose per Sicilia e Sardegna considerate aree svantaggiate. La questione è spinosa: per rimanere in Italia gli statunitensi vorrebbero pagare l’energia sotto i 30 kWh, Enel invece non sembra disposta a scendere al di sotto dei 40. Solo un accordo tra le due società potrebbe quindi scongiurare l’intervento dell’Unione europea che non sembra disposta ad accettare sconti energetici concessi sotto forma di “aiuti di Stato”. «Nel nostro territorio vivono circa 150 mila persone e la disoccupazione è pari al 30 per cento. Se dovesse chiudere lo stabilimento di Portovesme, non sarebbe possibile trovare un’altra occupazione, perché non ci sono offerte di lavoro. Per noi queste industrie rappresentano l’unica fonte di economia», dichiara preoccupato Massimo Cara, sindacalista della Cisl delle Rsu Alcoa, la rappresentanza sindacale unitaria della multinazionale americana.



In un comunicato diffuso qualche giorno fa, le organizzazioni sindacali Fim, Fiom, Uilm, unitamente a Cgil, Cisl e Uil hanno proposto ad Alcoa di non interrompere la produzione nello stabilimento sardo e in quello veneto di Fusina, dichiarano comunque di voler salvare la produzione di alluminio in Italia e pretendono programmi e un piano industriali che diano certezze per il futuro. Oppure chiedono al Governo e alle Regioni, anche attraverso il commissariamento e una gestione straordinaria, la continuità dell’attività produttiva sotto un’altra gestione.
Il timore è infatti che nei prossimi anni Alcoa lasci l’Italia e altre nazioni europee come la Spagna, attirata da investimenti in altre zone, come il Medio Oriente. Proprio nel dicembre scorso infatti il colosso americano dell’alluminio ha annunciato di aver raggiunto con il gruppo minerario Ma’aden un accordo per la costituzione di una joint venture dell’alluminio. Un investimento complessivo da 10,8 miliardi di dollari. Al momento, la maggiore produzione di alluminio avviene negli Stati che dispongono di grandi quantità di energia a basso costo, come nel Canada (maggiore produttore al mondo) e in quelli del nord Europa, tra cui Norvegia e Islanda dove gli impianti di produzione hanno in genere delle centrali idroelettriche dedicate. L’Italia è invece la prima produttrice in Europa di alluminio riciclato, prodotto ottenuto dal recupero di lattine e altri rifiuti di alluminio. Un processo che richiede una quantità di energia elettrica molto inferiore rispetto alla produzione primaria. «E’ molto interessante che in Italia ci si impegni per la raccolta e il riciclaggio di alluminio, anche se è impensabile soddisfare l’intero fabbisogno nazionale unicamente col riciclaggio. L’ideale sarebbe adottare sia l’una che l’altra opzione. Il core business di Alcoa è comunque sull’alluminio primario», commenta Vittorio Bardi, coordinatore nazionale Fiom del gruppo Alcoa. La multinazionale americana attualmente produce infatti il 18% dell’alluminio utilizzato in Italia, circa 200 mila tonnellate all’anno di un mercato in continua espansione. La paura che nel futuro Alcoa abbandoni comunque il nostro paese è grande, perciò i sindacati chiedono garanzie anche per i prossimi anni. L’Italia è infatti il maggiore consumatore di alluminio in Europa.

Oggi, la vertenza ruota attorno al costo dell’energia. Una questione che, secondo Claudio Scajola, risolverebbe tornando al nucleare. In tal caso, dice il ministro dello Sviluppo economico, il prezzo dei megawatt si abbasserebbe di una trentina d’euro. Gli operai di Portovesme però non ci stanno: «Il ritorno al nucleare non è la soluzione al problema. Qui, abbiamo altre fonti di energia che potrebbero aiutarci a risolvere il problema, ad esempio il carbone del Sulcis che viene utilizzato in Germania a costi molto bassi. Oltretutto, per costruire una centrale nucleare ci vorrebbero almeno dieci. E nel frattempo, noi che faremo?». Una domanda legittima nel Sulcis, in questa zona della Sardegna, tra le più povere dell’isola, dove ci si batte per conservare il lavoro o si rischia la fame.



Testo di Vincenzo Sassu

domenica 14 marzo 2010

Resistenza chimica


Tra gli operai della Vinyls di Porto Torres che avevano occupato la Torre aragonese della città, prima di spostarsi nell'isola dell'Asinara per far conoscere all'Italia intera la difficile condizione di precarietà sociale e lavorativa che vivono da mesi. Ora Eni e Ramco, società del Qatar, hanno raggiunto un accordo di massima per acquistare l'azienda. Ma le delusioni del passato sono troppe.

«Sono finiti i tempi in cui la petrolchimica sembrava una città, con tutte quei puntini luminosi. Ora, le luci si stanno spegnendo pian piano. E sulla nostra vita è calato il buio». Gli operai chimici della Vinyls Italia di Porto Torres, in cassa integrazione da mesi, ricordano così il loro stabilimento, illuminato, vivo. Una fabbrica che, nei tempi d’oro, dava lavoro a 20mila persone e arrivava a produrre 60mila tonnellate di Cvm-Pvc all’anno. Immagine che rimane impressa nei loro sguardi sognanti mentre la osservano in lontananza e la vedono deserta, smarrita, senza luce. Questo nonostante l’accordo di massima appena raggiunto tra Eni e Ramco, società del Qatar, interessata a rilevare l’intero ciclo del Pvc. Un accordo su cui si gioca il futuro della chimica in Italia, così come il loro destino. Ma la situazione resta incandescente e gli operai rimangono cauti sull’esito finale della trattativa. Da troppi mesi vivono l’esaltazione di accordi che poi falliscono, di patti non rispettati. E finché gli impianti non riprenderanno a lavorare, continueranno la loro protesta. Perché la loro fabbrica, la più grande del territorio, che garantiva un reddito a migliaia di famiglie, oggi appare come una fotografia sbiadita, dall’alto della Torre Aragonese, davanti al porto della città, dove sono accampati ormai da più di un mese. Per farsi sentire, 138 operai della Vinyls hanno infatti scelto di occupare un baluardo costruito nel 1325 dall’ammiraglio Caroz, che aveva raggiunto Porto Torres con la flotta aragonese. L’hanno fatto per chiedere la riapertura degli impianti del petrolchimico e giurano di non abbandonarlo finché non riprenderanno a lavorare, a sfamare una famiglia che ha smesso di fare progetti e credere nel futuro. Perché mancano i soldi per le necessità quotidiane, per vivere con dignità, da quando la loro fabbrica ha chiuso i battenti.



Ufficialmente è dal luglio 2009 che gli operai sono in cassa integrazione, ma lo stabilimento lavorava a singhiozzo già nei sette mesi precedenti. Avrebbe dovuto riprendere l’attività il 15 dicembre scorso, ma gli impianti di produzione della filiera del cloro sono ancora chiusi, a causa del blocco delle forniture di materie prime, come etilene e dicloretano, da parte dell’Eni e, da allora, i dipendenti della Vinyls di Porto Torres sono senza lavoro. Così come quelli Porto Marghera che, fino ad ora, hanno atteso invano il riavvio degli impianti. Eppure, sembrava che la situazione per l’ex azienda chimica di Fiorenzo Sartor, attualmente in amministrazione straordinaria, si fosse risolta con l’accordo del 12 novembre 2009, quando il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, aveva annunciato, in una nota, che il caso Vinyls-Eni si sarebbe concluso con un lieto fine. All’epoca, l’Eni si era infatti impegnata a fornire tutte le materie prime necessarie a far ripartire gli impianti dell’azienda specializzata in Pvc, attiva a Porto Torres, Porto Marghera e Ravenna: 470 addetti di cui 137 solo in Sardegna. Questo, sperando che la società, entro il 15 dicembre, ottenesse le fideiussioni necessarie dagli istituti di credito. Cosa che, di fatto, non è accaduta. Le banche infatti, vista l’azienda in stato di amministrazione straordinaria, si sono rifiutate di concederle. Fideiussioni che poi erano state comunque deliberate, fino a un massimo di 20 milioni di euro, dalla Regione, attraverso l’ultima finanziaria, la Sfirs. Un finanziamento però soggetto al parere della Commissione europea che, ancora non si è pronunciata, facendo quindi precipitare la situazione. Dopo l’incontro del 22 febbraio scorso tra Eni e Ramco, la situazione però sembra cambiata. Il Cane a sei zampe finalmente pare infatti intenzionato a rispettare l'accordo siglato il 12 novembre 2009 per la fornitura a Vinyls dei servizi e delle materie prime (etilene e dicloretano) al prezzo concordato, che attualmente è inferiore ai prezzi di mercato. Eni e Ramco avrebbero poi raggiunto anche un accordo di massima sul trasferimento di asset dell'Eni a Ramco ad Assemini, in Sardegna, a Marghera, nel Veneto e a Cirò Marina, in Calabria, per ricomporre il ciclo produttivo della filiera del cloro, che sarà discusso con le autorità locali e con i sindacati. Allo stesso tempo Ramco dovrebbe prendere contatto con i commissari di Vinyls per concordare i passi successivi. «Rimaniamo molto cauti sugli esiti concreti dell’accordo, perché, fino ad ora, i patti non sono mai stati rispettati. Quindi, finché gli impianti non ripartiranno concretamente non molleremo», dichiara a caldo Pierfranco Delogu, segretario dei chimici della Cgil.



Come i sindacati anche gli operai di Porto Torres attendono gli sviluppi concreti degli accordi, perché il baratro della cassa integrazione su cui sono sprofondati da mesi sta logorando centinaia di famiglie della zona. «Non posso continuare a vivere così, senza un lavoro. Ho due figlie di 3 e 5 anni, avevo un mutuo che ora ho dovuto sospendere. E le prospettive sono nere», racconta Roberto Carta, 33 anni, capellino rosso acceso e un sorriso limpido a mascherare una situazione che non riuscirà a sostenere a lungo, con una moglie senza lavoro e due figlie piccole da crescere. «Il nostro dramma è anche quello di Porto Torres, di famiglie assistite dai servizi sociali e di altre costrette a chiedere alla Caritas il cibo per poter mangiare», interviene Pier Gianni con la consapevolezza di chi vede morire ogni giorno la sua città, ma non si arrende. E dà battaglia, finché avrà la forza di farlo. Quello che si vive in questi giorni è un momento cruciale per il futuro della chimica italiana, un’industria che rappresenta, nel nostro Paese, una risorsa importante sia per gli insediamenti produttivi presenti in varie Regioni (i più importanti a Porto Marghera, Ferrara, Mantova, Ravenna, Assemini, Porto Torres) sia sul piano occupazionale e commerciale. Un settore produttivo, quello chimico, fortemente integrato tra i diversi impianti che costituiscono un unico assetto di filiera. Al giorno d’oggi, Porto Marghera con circa 2000 dipendenti diretti e circa 1500 occupati nell'indotto, rappresenta il cardine di tale integrazione. Secondo l’ultima edizione dello studio Plastic trend synthesis pubblicato dalla società di consulenza milanese Plastic Consult con la fermata degli impianti di Pvc di Porto Torres e Porto Marghera la produzione nazionale è diminuita e l’import di termoplastiche, come polistirene, Pvc e tecnopolimere, è aumentata notevolmente, coprendo, l’anno scorso, quasi il 75% della termoplastiche in Italia. La ricerca rivela inoltre come, negli ultimi due anni, le vendite di termoplastiche vergini nel nostro Paese siano crollate di quasi un milione di tonnellate, fermandosi a fine 2009 a quota 6 milioni.



Quella dei cloro derivati, è infatti una produzione strategica per l’intero compatto chimico nazionale, un settore in cui, per lungo tempo, il polo di Porto Torres è stato all’avanguardia. Questo grazie alla professionalità degli operai impiegati: «Sono tutti molti qualificati, tanti di loro sono anche laureati. Il problema è politico, volendo la situazione si risolve. Anche perché, se questo non accadesse, saremmo tagliati fuori dal mercato europeo dove la concorrenza è grande. In Francia, Inghilterra, Germania e Svizzera ci sono infatti impianti simili a quello di Porto Torres che producono Pvc. Materiale essenziale che noi dovremmo importare in quantità sempre più massicce», dichiara Giuseppe Suffritti, direttore del Dipartimento di Chimica dell’Università di Sassari. Perché anche il mondo accademico isolano sta sostenendo con vigore la battaglia degli operai della Vinyls. Così come alcuni sindaci della zona che minacciano le dimissioni se la situazione non venisse risolta, e gli studenti della città che invece sperano di trovare un’occupazione nell’area industriale. C’è anche la Chiesa della zona a dar man forte, con don Mario Tanca della parrocchia di San Gavino, simbolo di Porto Torres, e monsignor Atzei, che durante la fiaccolata a sostegno dei lavoratori, organizzata in città il 26 gennaio scorso, ha pronunciato parole chiare: «Un vescovo, pur non facendo politica, non può fare finta di niente di fronte a quanto sta accadendo. È doveroso chiedere alla Regione e ai parlamentari sardi di far sentire la voce del territorio. Mi ha colpito molto che non si siano fatti vedere. Io non sono contro di loro. Ma sto con i lavoratori».

La solidarietà è giunta anche da lontano, dai dipendenti di un caseificio di Thiesi, un piccolo paese della provincia di Sassari. Domenica scorsa, sono arrivati in furgoncino con sacchi di pasta, casse d’acqua, cartoni di latte, scatole di pelati, formaggio. Beni di prima necessità per aiutare le famiglie degli operai che, senza stipendio e, con i soldi dei pochi risparmi ormai agli sgoccioli, vivono il difficoltà di non poter condividere con mogli e figli quel momento di incontro, attorno ad un pasto caldo, che vale più di qualunque altra cosa. Ad accoglierli nella Torre Aragonese, c’erano giovani operai e anziani, con 37 anni di lavoro in fabbrica alle spalle. Uomini che presidiano la torre giorno e notte ormai. «Qui dormiamo», dicono, indicando alcuni materassi sul pavimento. Attorno ci sono anche due tavoli dove, gli operai organizzano ogni iniziativa. Appesi al muro, ritagli di giornali locali: articoli che raccontano la loro storie. Come quella di Tino Tellini, operaio della Vinyls ed ex assessore all’Industria del Comune: «Questo dei lavoratori di Thiesi è stato un gesto di solidarietà significativo, tra i più belli che sia mai stato fatto per noi. La nostra è una battaglia per il territorio e per il futuro della chimica nel nostro Paese. Se dovessimo cadere, con noi precipiterebbe tutto lo stabilimento. Oltre la disperazione, gli ammortizzatori sociali e l’assistenzialismo non ci sono alternative». Così come per Omar Sall, ambulante senegalese di Dakar, da tre anni a Porto Torres. Perché se gli operai non riprendono a lavorare anche la sua merce continuerà a rimanere lì, disposta sul tappetino disteso per strada. Invenduta. Per chissà quanto tempo ancora.



Fotografie e testo di Vincenzo Sassu